Un enorme divario separa in Italia le arti visive dalla musica: un divario d’ordine percettivo, culturale, educativo, fruitivo, narrativo. Cenerentola tra le arti, la musica in Italia non gode di buona salute come altrove, essendo storicamente considerata arte minore rispetto, per esempio, alla letteratura, alla pittura o alla scultura. Un gap questo che è causa di una lunga serie di conseguenze più o meno visibili, più o meno percepibili: la totale assenza della storia della musica, e non della storia dell’arte né tantomeno della letteratura, da qualsiasi istituto scolastico superiore; la fitta presenza di pubblico giovane nei musei, nelle gallerie e nei teatri di prosa, ma non certo nei teatri d’opera e negli auditorium; la grande fama mediatica di illustri storici e critici dell’arte, ma non certo di grandi musicologi, storici della musica o critici musicali.

Alle fin troppo palesi differenze appena elencate, se ne aggiunge un’altra che va a legarsi a doppio filo alle precedenti sia in quanto causa che al tempo stesso effetto: la più che scontata preparazione accademica della maggior parte degli storici e dei critici dell’arte a fronte della più totale impreparazione della stragrande maggioranza dei cosiddetti critici musicali (che storici o musicologi, proprio in quanto totalmente impreparati, non potrebbero mai aspirare a essere). Accetterebbe mai il lettore della sezione culturale di un qualsiasi periodico o quotidiano che il critico d’arte di turno non sapesse distinguere tra un carboncino e un acquerello? Accetterebbe mai lo stesso lettore che il dato critico d’arte non si addentrasse mai in discorsi o contenuti d’ordine squisitamente artistico, oserei dire, in alcuni casi, tecnico, limitandosi a narrare degli amori del tale artista o dei soldi guadagnati con la vendita della tale opera d’arte?

Non è necessario proseguire con ulteriori ipotesi surreali, in quanto risulta alquanto evidente che il lettorato medio di una qualsiasi sezione musicale di un qualsiasi quotidiano o periodico italiano sia stata abituata, nei decenni o addirittura nei secoli, ad accontentarsi di farsi raccontare del ciuffo del tale musicista, della sua nuova fidanzata, della villa acquistata in riva al lago, del nuovo contratto siglato con la tale etichetta e delle date del nuovo tour: tutte informazioni anche utili, ma non nel caso in cui non ci si spinga mai oltre l’asticella del puro gossip. Di musica, in sostanza, non si parla mai. I “critici” più arditi hanno in tal senso inventato una specie di pseudo narrazione contenutistica che rasenta il più delle volte il ridicolo: il senso soggettivo della musica, un espediente grazie al quale il “critico” di turno spaccia per conoscenza del dato album, della data opera musicale, quelle che si limitano a essere le proprie impressioni e sensazioni più squisitamente soggettive, il proprio personalissimo gusto a prescindere da qualsiasi conoscenza vera, tecnica, realmente contenutistica del dato oggetto musicale. Di tecnicismi si muore, vero. Ma di totale assenza di qualsiasi forma di conoscenza oggettiva della materia ci si rincoglionisce.

Si può infatti, come dimostrano da sempre i grandi critici d’arte, riuscire a essere contenutisticamente validi senza risultare esoterici, mantenendo cioè un approccio divulgativo. Sembra impossibile che i critici musicali italiani non riescano a riconoscere, o sappiano anche solo cosa sia, una modulazione, un’alterazione (ci saremmo risparmiati in tal caso i celebri “bemolle chopiniani” dell’improvvisatissimo Scalfari espressino), un intervallo di settima o, molto più banalmente, distinguere un maggiore da un minore, un timbro da un altro, una scala discendente da una ascendente, ecco, sembra impossibile che la stragrande maggioranza dei sedicenti critici musicali di casa nostra non abbia minimamente nozione di cosa tutte queste cose, e altre diecimila, siano.

Non che sia necessario saperle per comunicarle al proprio pubblico secondo un linguaggio tecnico, codificato, ma semplicemente per essere consapevoli di cosa si stia ascoltando, di cosa ci si stia accingendo a trattare, a narrare, usando poi un linguaggio e dei termini consoni al proprio pubblico per rendere quelle conoscenze d’ordine tecnico fruibili ai più, di fatto traducendole. Perché il lettorato medio musicale italiano si accontenta della solita minestra riscaldata? Perché non si pretende di più, più competenza, più conoscenza, più padronanza della materia, in una parola, più preparazione? Risponderei utilizzando l’antico proverbio secondo il quale la rana in un pozzo non può concepire l’oceano.

Questione, direi io, di mera abitudine dunque. Sta di fatto che esistono lauree e facoltà atte a formare il critico musicale, atte a definire la figura del musicologo: perché la stragrande maggioranza dei sedicenti critici musicali italiani non ha mai sentito né la necessità di iscriversi in una di queste facoltà né di avvicinarcisi anche solo a vedere che aria tira? Un post, il presente, che susciterà il nervosismo di più di qualcuno, ma che va fatto, va scritto, i cui contenuti vanno comunicati, trasferiti, perché un domani si possa discorrere e leggere di musica finalmente come lo si fa per le arti sorelle, attualmente, maggiori.

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