•Ho un ricordo, legato ai mondiali di calcio, che sicuramente condivido con molti italiani della mia generazione. Avevo 14 anni ed ero davanti al televisore la sera del 17 giugno 1970, un Siemens in bianco e nero (in Italia non c’era ancora il colore), con una lampada poggiata su, come si usava allora, per non affaticare gli occhi. A terra l’indispensabile stabilizzatore di corrente. Niente telecomando, naturalmente: per cambiare canale bisognava alzarsi e girare la manopola, una seccatura (ma tanto le reti erano solo due, purtroppo o per fortuna: c’era il monopolio Rai…). L’immagine video ogni tanto saliva e scendeva, ma niente paura, all’epoca era normale, c’era un coso, un pirulino, non so come chiamarlo, dietro l’apparecchio. Bastava alzarsi e girarlo. Beh, non sempre bastava, a volte ci si incarogniva per trovare il punto giusto, ma alla fine ci si riusciva in qualche modo. Era quasi mezzanotte, i programmi normali erano finiti da un pezzo. In onda c’era un monoscopio con in sottofondo una canzone di Burt Bacharach, “I say a little prayer”, in versione orchestrale. Niente pubblicità, niente talk-show, niente bla bla. Ogni tanto una soave voce femminile interrompeva la musica per annunciare, con dolcezza, ma anche con serietà: “Siamo in attesa di collegarci via satellite con lo stadio Azteca di Città del Messico da dove trasmetteremo la telecronaca diretta dell’incontro di calcio Italia-Germania Ovest, valevole come semifinale del Campionato del Mondo. Telecronista: Nando Martellini”. In Messico erano le quattro del pomeriggio. Finalmente iniziò il collegamento.

Il bianco e nero faceva sembrare le figure dei calciatori ombre stilizzate che si muovevano sullo schermo e dava una sensazione di essenzialità, anche un po’ drammatica. La partita lo fu, come nessuna fino ad allora, tanto che fu battezzata, dopo la sua conclusione, “partita del secolo”. Di essa si sa tutto, non ne farò la cronaca. Ma nella mia memoria è impressa, indelebile, una voce. Una voce non prevista. Urla. In lontananza, attutite, ma nette, di una felicità insperata e violenta, quasi straziante, di quelle che si possono provare solo per un attimo. Erano per il gol di Rivera, il 4 a 3, ed erano in sottofondo: mentre Martellini commentava con grande emozione, quelle urla di una gioia senza freni si udivano distintamente: “Vinciamo!…” “Vinciamo!…”: per sette volte questa parola, pronunciata di là dall’Oceano Atlantico, risuonò nelle mie orecchie. Qualcuno vicino ai microfoni Rai, forse un fonico, gridava e probabilmente piangeva: la gioia improvvisa fa di questi scherzi.

Io avevo i brividi. Non conoscevo quella, come molte altre sensazioni, ero ancora troppo giovane. Quando la partita finì andai a letto esausto, per quanto felice della vittoria, ma quelle urla non mi abbandonarono per tutta la notte. Ancora oggi le ho chiare, ben presenti nella mente ed ogni volta che guardo una partita della nazionale italiana in un mondiale mi pare di sentirle di nuovo, ma sarebbe meglio dire che lo desidero e che il desiderio si trasforma in una sensazione uditiva. Quell’uomo aveva provato la felicità nella forma violenta di una gioia estrema ed improvvisa. Per un attimo, certo. C’è da domandarsi se e quante volte nella vita la si può sostenere. Probabilmente non è meno pericolosa del dolore (anche se, a differenza di questo, piacevole) perché si manifesta come qualcosa di puntiforme, capace di esistere solo per un breve attimo che pare infinito, ma che mostra in sé, come tatuato, il momento della fine. Ma vale la pena di vivere per provarla, anche solo una volta. Magari anche urlandola, come fece quello sconosciuto al di là dell’Oceano, in quella notte che chi ha la mia età non dimenticherà mai.

Diego Caiazzo

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