Esempio recente, tra i mille: Banca Etruria e il suo buco da un miliardo. La voragine salta fuori quando le sofferenze sono già state scaricate sugli incolpevoli risparmiatori. Dov’erano i revisori legali? Negli anni in cui l’istituto fiorentino collassava, tra il 2009 e il 2015, certificavano che “i bilanci  rappresentano in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale, finanziaria e il risultato economico”. La firma era di tal Alessandro Parrini, partner di PricewaterhouseCoopers (Price) che sfornava relazioni senza rilievi e incassava dalla banca assegni sempre più generosi, fino al milione di euro. Ancora peggio hanno fatto i revisori di Banca Marche: l’istituto era già schiantato sotto una montagna di sofferenze non stimate e non correttamente contabilizzate, ma le relazioni restituivano agli investitori un quadro sereno dei conti. Si scoprirà poi che chi le firmava, Fabrizio Piva, era stato già multato da Bankitalia per “omesse comunicazioni all’organo di vigilanza” come revisore di Banca Esperia. Per questi professionisti s’ipotizza ora una chiamata in concorso con gli amministratori. E proprio qui sta uno dei punti deboli del sistema di controllo: chi sbaglia, prima o poi, paga?

I bilanci rappresentano in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale”. Poi Etruria fa crac

Partiamo dagli sbagli. Più che a “distrazioni” o scarse capacità sono da imputare al congenito conflitto d’interesse che espone i controllori a “sintonie sospette”: a nominarli, infatti, è direttamente il controllato che ne stabilisce pure i compensi. Questo vincolo li espone a pressioni volte a blandirne, condizionarne e modificarne i giudizi fino a comprometterne del tutto l’imparzialità e la veridicità. Il legislatore è ben consapevole di questo rischio, tanto da punire l’impedito controllo, ma lo tratta come un pericolo astratto e ben si guarda dal risolverlo alla radice, prevedendo ad esempio incarichi attribuiti per sorteggio, come avviene per i loro “cugini poveri”.

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