È decisamente imbarazzante, all’esito del referendum in cui la maggioranza dei cittadini del Regno Unito ha optato per l’uscita dall’Unione europea, sentire chi non ne condivide il risultato intonare a canto fermo: “Basta con questi eccessi di democrazia. I tecnici ci sono per gestire le «tecnicalità», che il popolo non capisce: questa mania del voto è insopportabile”.

Qui non sono in gioco né i  vantaggi o benefici che trarranno gli anglossassoni dall’uscita dall’Unione europea né i danni permanenti che dall’uscita della Gran Bretagna deriveranno al Regno Unito, in particolare, e al Vecchio Continente, nel suo complesso: questi si valuteranno nel medio e lungo periodo; come pure, nel medio e lungo periodo si potranno apprezzare i contraccolpi geopolitici della Brexit. Ci vorranno, infatti, almeno due anni per compiere quello che Cameron ha definito “il compito più ambizioso a cui sono mai stati chiamati i funzionari della pubblica amministrazione inglese”: separare cioè la legislazione britannica da quella europea e tradurre in provvedimenti il divorzio dall’Unione. Quel che più conta, nell’immediato, sono invece le reazioni, talvolta scomposte e comunque sempre livorose, di chi pretende di farsi una ragione del risultato referendario, forte di argomenti subdoli, odiosi ed insidiosi, come il paventare che “la democrazia si possa perdere se usata male”, ovvero il degradarlo a “prova evidente che si è trattato di una scelta di paura, determinata da persone che, non avendo strumenti conoscitivi adeguati, hanno fatto prevalere la pancia sulla testa e la bile sul cuore”, le quali, “di fronte all’incertezza del futuro, non (avrebbero) reagito con la curiosità ma con la chiusura”; costoro, addirittura, si sono spinti ad affermare che “la retorica della gente comune ha francamente scocciato. Una democrazia ha bisogno di cittadini evoluti, che conoscano le materie su cui sono chiamati a deliberare”.

Lamentazioni addirittura inquietanti, queste, per chi, pur senza far capriole dalla gioia per la Brexit e, tuttavia, consapevole che al fondo del rifiuto popolare a restare nell’Unione vi è l’aumento, perché “ce lo chiede l’Europa”, del profitto di pochi a svantaggio di molti, in nome del dogma che il profitto è sacro e, dunque, non si tocca, così come sacro è lo strapotere bancario e speculativo, abbia comunque a cuore la democrazia.

Il pensiero di questi spregevolissimi individui, spesso attempati, ma pur sempre di buona memoria e di vasta cultura, dunque adusi abbeverarsi a “fonti” vetuste, ma anche capaci, nella loro somma perfidia, d’istituire velenose analogie tra il presente ed il passato, corre a Tucidide. Lo storico greco, magari perché non addottoratosi alla “Bocconi” o in Università d’altrettale prestigio, mai coinvolto nel programma Erasmus né allevato nella pépinière di qualche partito e neppure accolto amorevolmente in utero ecclesiae, era convinto, infatti, che la democrazia diretta di Atene, data la delicatezza del regime assembleare, potesse funzionare solo in presenza di una leadership eccezionale, come quella di Pericle, il leader per eccellenza, e non invece quella dei suoi degeneri successori, elemento d’involuzione che portò la democrazia ateniese alla profonda crisi manifestatasi nei colpi di Stato del 411 e del 404 a.C.

È sul modello di Pericle che, nel capitolo 65 del libro II, Tucidide traccia il ritratto del politico ideale: dotato di moderazione (“metrite”), di preveggenza (“pronoia”) e di intelligenza politica (“gnome”), autorevole per tradizione familiare e per merito personale, incorruttibile al denaro, Pericle non aveva bisogno di accattivarsi con la demagogia il consenso popolare e seppe quindi instaurare con l’assemblea del popolo, il demos, un rapporto disinteressato e costruttivo, volto al bene comune, tenendolo a freno senza limitarne la libertà. La generazione politica postpericlea è caratterizzata, invece, dal desiderio di primeggiare, dall’interesse privato, dall’impostazione di un diverso rapporto con il popolo, non più libero e disinteressato, ma di reciproca dipendenza: l’uomo politico ha bisogno del popolo, da cui deriva il suo potere, e parla quindi per compiacerlo e contemporaneamente il popolo diviene una massa di manovra nelle mani del leader, che ha interesse ad eccitarne le passioni.

I colpi di Stato oligarchici sono dunque la degna conclusione di questo processo degenerativo e sono realizzati attraverso raffinate tecniche di controllo del consenso. La democrazia, però, riesce a mostrare capacità di reazione e gli esperimenti oligarchici rientrano con rapidità. Restava, ovviamente, da affrontare la ricostruzione, non solo sul piano istituzionale, bensì anche e soprattutto su quello ideologico ed etico. Si trattava, cioè, di tornare a porsi come obiettivo e come limite alle ambizioni dei singoli “la giustizia e l’utile della città”.

Per tornare al presente, con l’occhio rivolto agli insegnamenti del passato, che dire di Cameron, che nel 2014, all’indomani del successo di Farage alle Europee, promosse il referendum sull’uscita dall’Unione, per vincere le elezioni nel 2015, e poi lo ha realizzato nel 2016, dopo aver cercato di disinnescarlo, ottenendo da Bruxelles trattamenti speciali su welfare, immigrazione, politica economica e finanziaria?

Evidente ch’egli abbia voluto usare un referendum così importante per ambizioni private: essere rieletto contro gli euroscettici dentro e fuori il suo partito. Solo che poi il popolo, a riprova che la democrazia diretta può funzionare solo in presenza di una leadership eccezionale, ha operato altre scelte.

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