Ogni anno a Yulin, nella Cina meridionale, si svolge un importante festival per salutare l’arrivo dell’estate. Non si tratta di una festa come le altre, almeno secondo gli standard occidentali: l’evento è infatti tristemente noto perché oltre 10.000 cani e centinaia di gatti vengono cucinati e serviti come cibo nelle bancarelle sparse per le strade.

Negli ultimi anni i media di tutto il mondo hanno diffuso immagini agghiaccianti di cani e gatti in gabbie minuscole, sporchi del sangue dei loro simili appena uccisi, scuoiati e appesi a ganci da macellaio. Immagini che hanno provocato un’ondata di indignazione e di proteste, con tanto di picchetti davanti alle ambasciate e intervento sul posto di attivisti che si sono impegnati a comprare il maggior numero di animali, per sottrarli a questo tragico destino. Ecco che lo sdegno dell’Occidente verso questo festival ha facilmente tracimato i confini della moderazione, assumendo purtroppo i toni di una crociata civilizzante contro la Cina, colpevole di essere retrograda e incivile, con tanto di insulti razzisti che immancabilmente hanno riempito i social network.

Ciò che però emerge di rado dalle cronache è che anche nel gigante asiatico è aumentata l’opposizione verso il consumo di carne di cane e gatto e verso il festival di Yulin, anche perché alimenta un fiorente commercio illegale. Tanto che a seguito dell’aumento delle polemiche interne le autorità locali avevano annunciato che quest’anno il festival non si sarebbe svolto, per poi fare marcia indietro e limitarsi a vietare la macellazione in strada. Ma la situazione è difficile da controllare e drammaticamente proprio la presenza di occidentali disposti a spendere cifre elevate per far risparmiare la vita di alcuni animali può fornire maggiore stimolo ai trafficanti, che arrivano a rapire cani randagi o padronali pur di poter rifornire il pubblico del festival, che quest’anno durerà dal 21 al 30 giugno.

D’altronde, se Yulin è il simbolo di un orrore che vorremmo nascondere, è vero che il consumo di carne di cane è diffuso in altri paesi del sudest asiatico come il Vietnam e persino nella ricca e moderna Corea del Sud, complice anche la medicina tradizionale che gli attribuisce alcune proprietà.

Si impongono quindi alcune riflessioni: certamente il fatto che i cani siano stipati in gabbie minuscole e che siano uccisi in modo brutale contribuisce ad aumentare l’indignazione, eppure il punto fondamentale non è il trattamento che subiscono, ma il fatto stesso che animali che consideriamo intoccabili siano uccisi per diventare cibo. Si tratta di un giudizio morale che supera le obiezioni sul benessere animale e quindi non verrebbe meno se quei cani fossero trattati nel modo migliore e uccisi senza alcuna sofferenza.

Ecco che si pone la questione dell’ipocrisia con cui guardiamo e giudichiamo ciò che accade a Oriente: se allontaniamo il pensiero dalle immagini trasmesse dai media e ragioniamo in astratto, cosa cambia tra quei cani e gatti e le migliaia di maiali, polli, agnelli, vitelli uccisi nei nostri macelli? Che cosa differenzia il festival di Yulin dalle nostre sagre estive a base di porchetta? Si potrebbe rispondere che è considerato giusto e normale mangiare certi animali, mentre i cani e gatti no, perché non sono destinati a quello scopo. Eppure, è una risposta che vorrebbe tranquillizzarci ma sappiamo non essere sincera. Innanzitutto perché la stessa società occidentale, osservata dall’esterno, non si dimostra decisa su quali animali sia giusto o sbagliato mangiare. Così mentre nei paesi anglosassoni uccidere un cavallo per scopi alimentari è considerato assurdo e barbarico, in Italia è una tradizione radicata che non crea scrupoli di coscienza, e nel nostro paese è vietata la produzione di foie gras, ancora prodotto in Francia e Ungheria, dove è considerato un piatto gourmet. Allo stesso modo, sempre più persone hanno in casa dei conigli e mai oserebbero mangiarli, eppure in Italia se ne allevano e macellano quasi la metà che in tutta Europa. Una schizofrenia dovuta al fatto che il metro di giudizio che ci piace considerare (quando ci fa comodo) è la tradizione, che identifica i comportamenti socialmente accettabili in un certo luogo e tempo, senza però fornirci un criterio valido per stabilire cosa sia universalmente giusto e sbagliato: fintanto che una pratica è accettata dalla maggioranza della popolazione, la stessa diventa incontestabile.

Se però realmente applicassimo sempre questo parametro, dovremmo accettare anche la strage di Yulin, la caccia alle balene in Giappone e non protestare per la corrida in Spagna o per le corse dei levrieri negli Usa: finché accettati dalla maggioranza della popolazione locale, sarebbero da considerare prodotti culturali ineliminabili. La nostra coscienza fa però fatica ad accettare una simile prospettiva relativistica. Ecco che Yulin ci aiuta a capire che stiamo ipocritamente applicando un doppio standard, non solo verso la Cina ma prima ancora a partire dalla nostra distinzione tra animali “da affezione” e animali “da reddito”.

Una volta che ci si pone in questo ordine di idee, risulta facile individuare il vero metro comune per identificare tutte le tradizioni sbagliate e condannarle come ingiuste. Una consapevolezza che ci porta a scegliere di batterci per eliminare la sofferenza di tutti gli animali. L’assordante ipocrisia velata di sottile razzismo dell’Occidente verso il consumo di carne di cane in Oriente può dunque far sorgere una riflessione più profonda sulla sorte anche degli altri animali, che in Occidente continuiamo a considerare solamente come cibo. Se non iniziamo a interrogarci anche su questo tema, tra qualche anno avremo sicuramente debellato il festival di Yulin ma non avremo eliminato questa sgradevole incoerenza, che come un’ombra inquieta pesa sulle nostre coscienze.

Diceva Tiziano Terzani con la disarmante semplicità che lo accompagnava: «Quella che chiamiamo eufemisticamente “carne” sono in verità pezzi di cadaveri, di animali morti, morti ammazzati. Perché fare del proprio stomaco un cimitero?».

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