Il progetto delle città, da qualunque parte politica sarà guidato, dovrà prendere atto della realtà. Viaggiando per le strade del nord, quelle che attraversano paesi e città senza affogare il viaggiatore nell’alienazione autostradale, s’incontrano innumerevoli edifici abbandonati. Quasi dieci anni di crisi finanziaria hanno provocato una mutazione genetica del territorio che appare irreversibile. Il vuoto urbano è una realtà consolidata e il suolo consumato e sprecato negli ultimi vent’anni dal paese è un insulto al buon senso. Ogni progetto di governo del territorio, dove il sindaco è un protagonista fondamentale, dovrebbe quindi partire da un presupposto: zero consumo di suolo subito. Viaggio più di rado nel Mezzogiorno, ma non ricordo paesaggi molto diversi.

Ciò non vuol dire bloccare l’edilizia, motore economico e sociale da sempre, ma focalizzarne l’intervento sul costruito da abbattere e riedificare. C’è l’enorme patrimonio abbandonato e in rovina, ma c’è anche tutto quanto fu edificato negli ultimi 70 anni, con esiti orrendi sul paesaggio, vulnerabile a frane e alluvioni, inefficiente sotto il profilo energetico e funzionale o soltanto superato dalle necessità di oggi, assai più sfaccettate di quelle di ieri. Se la ricostruzione del dopoguerra fu imposta dalla distruzione prodotta dai bombardamenti, quella dei prossimi anni è dettata dalla sostenibilità ambientale, paesaggistica e sociale. Il secondo presupposto è perciò: zero aumento di volume subito, perché il volume edificato di cui dispone ogni italiano (quello in uso e quello abbandonato) è più che sufficiente per una residenza che declina (per la prima volta dopo 90 anni anche nelle statistiche ufficiali) e che, comunque, non pare destinata a crescere nonostante l’immigrazione.

E la tecnologia tende sempre più a miniaturizzare le attività produttive, giacché la dimensione fisica di molti processi di produzione è diminuita da dieci fino a cento volte rispetto a quella di soli 50 anni fa. Ciò non significa applicare ciecamente il principio zero alle coperture esistenti e ai suoli esistenti. Su scala cittadina, alcuni volumi edificati potrebbero benissimo essere trasferiti dove si ritiene più utile edificare oggi. Per ogni nuovo metro quadrato edificato su suolo agricolo, però, un metro quadrato di suolo da rottamare dovrà essere restituito (bonificato) a suolo fertile. Vanno perciò sviluppate le tecnologie per la ricostruzione del suolo, quel sottilissimo strato vitale per l’umanità che i processi naturali impiegano anni, se non secoli e millenni, a produrre.

Anche grandi eventi si possono fare a zero consumo di suolo senza incremento di volumi. Olimpiadi o mondiali o esposizioni universali che siano. Anzi, il principio zero aiuterebbe a distinguere tra proposte speculative e iniziative interessanti. Il progetto iniziale di Expo 2015 era ispirato a questa necessità, legata a una concreta sostenibilità ambientale. Non è andata così. Ora, i nuovi sindaci delle maggiori città italiane potrebbero finalmente praticare in concreto il concetto di sostenibilità. Una pratica che i sindaci precedenti, verdi o arancioni, blu o rossi o arcobaleno, avevano abbastanza trascurato, continuando la loro storica caccia agli oneri di urbanizzazione.

Saranno capaci, i nuovi sindaci, a superare ciò che l’urbanista Arturo Lanzani descrive come «il deleterio binomio delle grandi opere, spesso inutili e sempre realizzate senza la benché minima integrazione con i territori e le città su cui sono calate, e una urbanistica ridotta a esclusivo autogoverno municipale dello sviluppo edilizio che per ragioni fiscali e politiche si è tramutato in una infinita espansione dell’urbanizzato e una moltiplicazione del dismesso?» È una delle sfide che le nuove amministrazioni devono affrontare affinché il paese respiri davvero il vento di un rinnovamento, prima di tutto, culturale. E non la più semplice.

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