Con Mina Welby abbiamo presentato a Roma, lo scorso 16 giugno, il libro di Pat Patfoort “Mamma viene a morire da noi domenica”. Questo bel titolo riflette la serenità con cui l’autrice – una intellettuale e una attiva sostenitrice della non violenza – affronta il tema della eutanasia, mostrandoci che anche in Belgio, a quasi 15 anni dalla sua legalizzazione, “la dolce morte” continua a essere una scelta non facile da portare a termine.

In primo luogo ci sono i tempi lunghi e le complesse procedure per giungere al momento finale della eutanasia.

In secondo luogo c’è la dura opposizione dei medici cattolici (“volete uccidere vostra madre”) e del personale delle case di cura e dei pensionati, che colpevolizzano i loro vecchi ospiti. “Molte persone anziane – dicono – riescono ad adattarsi alle condizioni della totale mancanza di autonomia, altri no”. E lo dicono “con un tono che sembra voler dividere i buoni dai cattivi”.

Locandina Pat Patfoort (1)Infine c’è – e l’autrice non si sottrae al dovere di parlarne – la fatica dei congiunti , che spesso per anni devono rinunciare ad una normale vita familiare e di lavoro. A questo proposito val la pena di ricordare che un recente studio del governo francese ci ha fatto sapere che il 50% dei caregiver soffre di forme gravissime di depressione. L’autrice confessa anche la sua difficoltà a venire incontro alla richiesta di eutanasia della madre: “Collaborare alla morte di una persona amata – scrive – è un compito pesante. E’ più facile portare fiori o un piccolo regalo, dire qualche parola gentile e poi tornarsene a casa. Per i parenti spesso è più facile chiudere gli occhi su una vita insopportabile”.

A fronte di queste difficoltà si erge la volontà lucida della madre della autrice: una donna che ha avuto una vita attiva e non accetta di sopravvivere come un vegetale. La mamma della autrice vuole morire per tre motivi principali: in primo luogo i costanti dolori fisici e la necessità di ricorrere a dosi sempre più forti di morfina; in secondo luogo la cecità e la sordità quasi totali, che la isolano dal mondo, dalla lettura e dall’ascolto della musica; in terzo luogo la sofferenza psicologica (“non può più fare nulla da sola, è intrappolata in quel corpo, è dipendente dagli altri anche per andare a bagno”).

Agli oppositori della eutanasia l’autrice rivolge solo un rimprovero (dovrebbero fare di più per assicurare migliori condizioni di vita agli anziani) ed un interrogativo: quale “vita” imponiamo a coloro a cui impediamo di accedere ala eutanasia?

Due frasi della madre della autrice mi hanno particolarmente colpito.

La prima riguarda la sua vita nel pensionato: “Qui i minuti sembrano secoli”. Che differenza abissale con la sensazione delle persone giovani e sane, per le quali gli anni che passano sembrano minuti!

La seconda è quella che più mi ha commosso nel libro e che la madre, che si vergogna della sua incontinenza, dice alla figlia nel corso della sua ultima visita al pensionato: “Io morirò pulita”.

Una frase che mi riporta a suicidio di mio fratello Michele, ragione prima del mio ultradecennale impegno in favore della eutanasia.

Michele era un malato terminale di leucemia. Rimandato a casa dall’ospedale per l’impossibilità di ulteriori cure, aveva cercato invano di trovare un medico che lo aiutasse a morire. Ma poi si era rassegnato ad attendere la morte, che sarebbe giunta entro pochi giorni.

Purtroppo, una sera Michele ebbe per la prima volta un episodio di incontinenza. La sua badante dovette spogliarlo, lavarlo, mettergli un pannolone ed un pigiama pulito e riportarlo a letto.

Michele – che era un uomo riservato e pudico – non ressa all’idea di questa perdita di dignità che lo avrebbe accompagnato fino alla morte. All’alba, aprì la porta finestra del terrazzo e si gettò nel vuoto dal quarto piano.

Il libro di Pat Patfoort mi ha rafforzato nella mia convinzione che una legge sulla eutanasia, quando finalmente sarà legalizzata anche in Italia, dovrà comprendere fra gli “aventi diritto” ad una morte degna non solo i malati terminali ma anche quelli che, pur potendo contare su una sopravvivenza più o meno lunga, ritengono che la loro vita non sia più degna di essere vissuta. E che vogliono esercitare, anche nelle scelte di fine vita, quel diritto alla autodeterminazione che è fra i pilastri della vita democratica dei paesi civili, pretendendo “una morte degna”.

Concludo ribadendo ciò che ho chiesto già 4 anni fa nel mio libro Liberi di morire, (editore Rubbettino): comprendere fra gli “aventi diritto alla eutanasia” i malati di Alzheimer. All’epoca questa mia ipotesi suscitò perplessità anche fra i fautori della eutanasia. Da allora molte ricerche, in Italia e nel mondo, hanno evidenziato che l’Alzheimer è e sempre più sarà (assieme ad altre forme di demenza meno diffuse) “il flagello del secolo”.

Perché non consentire a chiunque di dire, ora per allora: “Se fossi colpito da Alzheimer vorrei ottenere l’eutanasia”?

E’ una sfida difficile per noi italiani, vittime di una veterocultura cattolica su “la vita dono di Dio”.

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