Matteo Renzi da palazzo Chigi, ha ammesso la sconfitta pur ripetendo come un mantra che si tratta di un dato territoriale, frastagliato, non univoco, locale dove ha vinto chi ha saputo “interpretare un’esigenza di cambiamento“.

E di conseguenza, il presidente del Consiglio fatica non poco, e alla fine rinuncia trincerandosi dietro alle risposte “già date”, a venire a capo della domanda essenziale rivoltagli dalla giornalista de Il Fatto sulla questione delle questioni: e cioè, davanti al dato incontestabile che gli elettori hanno individuato nel M5S il soggetto del cambiamento, se e come intenda Renzi invertire la rotta in qualità di segretario di partito che aveva fatto del nuovo e della rottamazione il suo motto e la ragione della sua affermazione.

Riconosce, ed è la prima volta, che la vittoria nettissima ai ballottaggi del M5S, non solo a Roma e Torino, non può essere derubricata a “voto di protesta”, ma contemporaneamente sottolinea a più riprese che il dato elettorale richiede una lettura “non banale e molto più complicata di quel che sembra” e cita le affermazioni del Pd a Milano, Cagliari, Rimini, dove peraltro il M5S non si è presentato e il sindaco uscente ha ottenuto una brillante affermazione al primo turno grazie anche alle numerose liste “civiche collegate” di centristi, alfaniani e ciellini.  Dimentica di aggiungere, per limitarsi al dato dell’Emilia Romagna, che sarebbe opportuno considerare come la riconferma di Virginio Merola a Bologna, dopo un ballottaggio che ha registrato una buona tenuta della candidata leghista, sia stata contraddistinta da un profilo decisamente e dichiaratamente antirenziano, mentre a Cattolica l’aspirante sindaco del Pd Sergio Gambini si sia fermato al 43% con il 13% di distacco dal vincitore pentastellato.

L’appuntamento per la “discussione interna” è rimandato naturalmente alla direzione del 24 giugno dove buona parte dell’attenzione verrà dirottata a sull’esito del referendum sulla Brexit e così forse ci sarà meno tempo da dedicare alle rimostranze della minoranza già espresse da Roberto Speranza che ha parlato di un partito ridotto a “una sommatoria di comitati elettorali megafono del capo che parla in tv”.  Non poteva mancare l’augurio “caloroso” di buon lavoro a tutti gli eletti e a tutti i sindaci che il “governo aiuterà allo stesso modo” quasi a voler mettere una pezza tardiva alle improvvide e nefaste (per il Pd) dichiarazioni della ministra Maria Elena Boschi riguardo agli stanziamenti sulla città della salute che non sarebbero arrivati se a Torino avesse vinto l’Appendino.

Intanto le due vincitrici assolute, e con un consenso che è andato ogni aspettativa, parlano con un linguaggio quantomai inclusivo e istituzionale guardando giustamente anche oltre i confini nazionali, come impone soprattutto il profilo di primo cittadino di una capitale mondiale, quale è Roma che da oggi deve invertire il suo corso rovinoso e deve comunicarlo al mondo. Beppe Grillo che si è ben guardato dal rubare la scena alle candidate su cui nessuno avrebbe scommesso e che universalmente venivano attaccate e considerate dai più benevoli “inadeguate” può a ben diritto rivendicare che lui e Gianroberto Casaleggio sono stati “i tessitori di questa missione impossibile“.  I cittadini hanno scelto tra il M5S, accusato da sempre di tutto e del contrario di tutto – tra cui l’arroganza e la pretesa irrealistica di presentarsi da solo – e “l’accozzaglia di simboli”, come l’ha definita Grillo, con cui si è presentato quasi ovunque il Pd, puntellato da una indefinita scia di sedicenti liste civiche dai nomi più o meno pittoreschi. Gli elettori hanno dato fiducia alle due “sconosciute”.

I volti di Chiara Appendino e di Virginia Raggi che  possono essere veramente l’immagine del passaggio dalle città al governo nazionale, se riusciranno a concretizzare almeno una parte delle aspettative suscitate, smentiscono tra l’altro in modo categorico le accuse di “bieco maschilismo” sollevate a più riprese contro il M5S e in particolare contro Beppe Grillo. Basti ricordare la cagnara sollevata dal “caso Salsi” e poi dalla rinuncia della Bedori.  Anche l’eco riservata solo un anno fa a “un saggio”, dal titolo curiosamente e faziosamente accattivante,  “Stai zitta e vai in cucina. Breve storia del maschilismo in politica da Togliatti a Grillo”, testimonia l’ossessione per il Grillo “sessista” e, alla luce del trionfo odierno delle candidate “grilline”, la meschina miopia di troppi  “intellettuali” più sintonizzati con i salotti televisivi e radiofonici che con i cittadini.

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