Quella che in questi anni ha dominato il litorale romano è null’altro che un’associazione a delinquere finalizzata alle estorsioni e all’usura. Questo, almeno, stando alla sentenza della seconda sezione della Corte d’Appello di Roma, che il 13 giugno 2016, ha escluso la mafiosità del sodalizio facente capo a Carmine Fasciani. Eppure, soltanto il 9 giugno precedente, la Corte di cassazione aveva invece riconosciuto per alcuni prestanome dei Fasciani l’aggravante del metodo mafioso.

n’ondata d’indignazione ha accolto la pronuncia di merito, comunque non ancora definitiva e della quale s’ignorano le motivazioni, da parte di un’opinione pubblica sconcertata: taluni hanno denunciato la “schizofrenia” giudiziaria, per poi chiedersi, dio sa se provocatoriamente o no, perché sia stato sciolto per mafia il municipio di Ostia; altri, più ragionevolmente, sono apparsi tormentati dal dilemma se a Roma la mafia non esista veramente o se piuttosto il fenomeno mafioso si sia evoluto a tal punto da rendere necessario un intervento legislativo, che ridisegni la fattispecie incriminatrice; né è mancato, infine, chi ha espresso il timore che questa sentenza possa condizionare gli esiti del processo di “Mafia Capitale”: anche in quel dibattimento le difese degli imputati sostengono come non sia neppure immaginabile che a Roma e dintorni ci sia la mafia; il racket magari sì, l’usura anche e pure il riciclaggio e l’intestazione fittizia di beni; tutto, però, all’interno di un’associazione a delinquere di tipo comune.

Quest’ultima preoccupazione, purtroppo, non è infondata: senza nascondersi che “il materiale probatorio raccolto è importante” e che “c’è la sostanza criminale”, taluno ha avanzato dubbi rispetto all’idea di contrastare un fenomeno, la cosiddetta criminalità politico-amministrativa, con l’utilizzo invece del reato di associazione di tipo mafioso. Sebbene, infatti, sia questo lo strumento più appuntito nella tutela dell’ordine pubblico quando si è in presenza di un territorio soggiogato, ci si chiede tuttavia se l’art. 416 bis del codice penale sia applicabile in presenza di una specifica realtà, le gare d’appalto del Comune di Roma, contestando più o meno esplicitamente l’idea, che si vorrebbe alla base del processo “Mafia Capitale”, di enfatizzare la flessibilità dell’art. 416 bis, così da non congestionare ulteriormente il sistema, di fronte a una fortissima pressione mediatica, con l’introduzione di nuove fattispecie, di nuovi delitti associativi, inserendo piuttosto nuova materia nel “doppio binario mafioso”, puntualmente delineato dalla sesta sezione della Corte di cassazione, nella sentenza n. 625 del 2015: da un lato, la mafia politico-amministrativa, dove la forza intimidatoria consiste nella paura di “esser fatti fuori” dai grandi affari e appalti che riempivano di denari gli interessati, corrotti e corruttori; dall’altro, la criminalità di strada, violenta e pericolosa, che trae le sue origini socio-culturali dalla Banda della Magliana, dalla quale proviene per contiguità Massimo Carminati.

I precedenti, purtroppo, pesano e non inducono all’ottimismo. Già anni orsono dovetti dolorosamente constatare, proprio a proposito della Banda della Magliana, che, sebbene il sodalizio delinquentesco fosse all’apice del suo potere, il suo essere un’associazione di tipo mafioso era, però, più nel sentire comune che nelle carte poliziesche e giudiziarie, dove comparve prepotentemente solo con la cosiddetta “Operazione Colosseo”.

In tutti i giudizi di merito che a questa seguirono, l’associazione fu considerata di tipo mafioso e tale qualificazione resse anche di fronte alla Corte di cassazione, sia nei procedimenti incidentali de libertate sia nei processi celebrati col rito abbreviato e decisi, dunque, “allo stato degli atti”. In quello celebrato, invece, col rito ordinario, nel quale le prove s’erano formate nel contraddittorio tra le parti, la Corte, muovendo dalla premessa che “l’associazione è di tipo mafioso quando è in condizione di fare sentire la sua presenza sulla società nella quale opera, tanto che (questa) è incapace a reagire sul piano sociale e sul piano giudiziario e tanto che per l’effetto l’associazione acquisisce il controllo del territorio e delle varie attività (economiche e non) descritte nella norma incriminatrice”, annullò la sentenza d’appello, per “totale carenza di motivazione proprio con riferimento ai fatti concreti che dimostr(ass)ero nei soggetti esterni all’associazione il clima di assoggettamento e di omertà”, ritenendo carente la motivazione sia “sulla esistenza nella città di un clima di paura diffusa derivante dalla forza intimidatrice del vincolo associativo della Banda della Magliana”, sia “sulla compenetrazione necessaria tra associazione e società civile”, sia “nella individuazione delle persone, appartenenti alla società civile, che potevano considerarsi assoggettate alla potenzialità intimidatoria dell’associazione”.

La Corte d’Assise d’appello, giudice del rinvio, chiamata a “individua(re) fatti concreti e specifici, potenzialmente idonei ad incidere all’esterno sulla sfera di soggetti estranei, che (avevano) subìto la forza intimidatrice del vincolo associativo e che (erano) rimasti in una situazione di sottomissione e di sudditanza e di incapacità di fare valere le loro ragioni, calpestate dagli atteggiamenti di prevaricazione della Banda della Magliana”, anziché evocare quelli già ampiamente e puntualmente enunciati nella sentenza di primo grado e nelle altre già passate in giudicato, scelse la via più comoda di disconoscere la mafiosità del sodalizio.

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