Comunque vada a finire, il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea ha già prodotto un mezzo miracolo. E’ infatti riuscito a mettere d’accordo la quasi totalità degli economisti. Seppur con diverse motivazioni e gradazioni lo schieramento dei contrari all’addio di Londra è davvero nutrito sino a comprendere voci da tempo critiche verso l’attuale struttura dell’Unione come Paul Krugman, Yanis Varoufakis o Dani Rodrik. Quasi tutti sono d’accordo che, da un punto di vista strettamente economico, dire goodbye all’Europa non sia un grande affare. Anche se, dopo l’omicidio della deputata laburista Jo Cox, le probabilità di successo per i sostenitori del “Leave” si fanno più lontane. Sull’entità delle conseguenze negative sono però circolate un’infinità di stime, ipotesi e simulazioni che vanno da scenari assolutamente gestibili a quelli che sfiorano l’apocalittico. Tentiamo quindi di riepilogare quelle che sono le conseguenze più verosimili in caso di vittoria dei separatisti o di chi vuole la permanenza nell’Ue.

EFFETTI IMMEDIATI – Il referendum è un evento atteso su cui mercati e investitori hanno avuto tempo di posizionarsi. Quindi, almeno in teoria, sono da escludere reazioni di panico e scenari catastrofici. I rendimenti dei titoli di stato decennali inglesi rimangono su livelli bassi, intorno all’1%, a significare che non ci sono attese di grandi crisi finanziarie. Tuttavia in caso di vittoria dei “leave”, e quindi di addio della Gran Bretagna all’Ue, sui mercati ci sarà da ballare almeno per un po’. Quasi certo uno scivolone della borsa di Londra (nell’ordine del 4-5% in una sola seduta) e in generale cali consistenti in tutte le piazze finanziarie.

Discorso simile per la sterlina e per l’euro. Secondo Goldman Sachs, la moneta britannica potrebbe cedere un altro 11%. Andrea Cuturi di Anthilia sgr conferma che “nelle ultime settimane la sterlina ha già perso parecchio ma ci sono margini per ulteriori cali. Sebbene le valutazioni più attendibili diano ancora un vantaggio a chi voterà per restare nell’Ue, la Brexit sta sicuramente guadagnando terreno e il nervosismo sui mercati cresce. Tutte le grandi banche – continua Cuturi – hanno precettato gli addetti delle sale operative che saranno alle loro postazioni per tutta la giornata del 23 e la notte del 24”.

La Banca centrale europea ha comunicato di essere pronta ad ogni evenienza e quindi in pre-allerta per rapidi interventi sul mercato nelle ore immediatamente successive alla comunicazione dei risultati. Lo stesso vale per la Bank of England che se vincessero i “leave” potrebbe anche alzare i tassi per arginare la fuga di capitali e il deprezzamento della sterlina favorendo i titoli di Stato britannici. In caso di uscita dall’Ue probabile anche un aumento delle quotazioni dell’oro, tradizionale bene rifugio nelle fasi di incertezza e, secondo alcuni analisti, anche del franco svizzero che pure negli ultimi anni ha abdicato a questa sua funzione difensiva.

Per le stesse ragioni, facile prevedere una corsa verso i titoli di stato tedeschi e in genere di Paesi europei più sicuri. Sono invece da metter in conto tensioni sui bond “periferici” ossia italiani, spagnoli, portoghesi e greci con un repentino calo dei prezzi e parallelo incremento dei rendimenti. Si potrebbe velocemente rivedere un Btp decennale con rendimenti intorno al 3%. Il rischio è infatti quello di mettere davanti agli occhi dei mercati il precedente di un Paese che esce dall’ Unione e che potrebbe segnare la via per altre separazioni e mettere a rischio la tenuta dell’Unione. Se i britannici sceglieranno invece di restare nell’Unione è lecito attendersi una reazione di segno inverso ma più contenuta nelle dimensioni. “Ci sarà quello che in gergo si chiama relief rally, ossia una ripresa dei mercati che prende forma quando un evento percepito come negativo non si materializza – continua Cuturi – dopo di che tutto tornerà piuttosto rapidamente alla normalità”.

EFFETTI NEGLI ANNI SEGUENTI – Tolte le cavallette e i dinosauri nel Tamigi, sulle potenziali conseguenze dannose della Brexit si è detto quasi tutto. Il problema è che fare previsioni attendibili su una situazione inedita e ricca di incognite risulta particolarmente difficile. C’è un diffuso consenso sul fatto che per l’economia britannica non sarà comunque una passeggiata. La Bank of England vede dall’addio all’Unione rischi per l’intera economia globale. Il Fondo monetario internazionale parla di grandi rischi per l’Europa.

Il ministero del Tesoro britannico ha elaborato una serie di scenari in caso di Brexit. Quello di mezzo prevede una riduzione del Pil del 3,6% nei due anni successivi all’uscita dall’Unione e la perdita di 520mila posti di lavoro. L’ipotesi peggiore stima un calo del Pil del 6% e 820mila occupati in meno. Il problema, spiegano molti osservatori, è che in questi anni la Gran Bretagna si è specializzata come fornitore di servizi ai Paesi Ue: tranciare i legami con il proprio mercato di riferimento non pare quindi una grande idea. Si fa anche notare come dal 1973, anno in cui Londra ha aderito al progetto europeo, ad oggi la crescita del Pil procapite inglese sia stata la più rapida tra le economie del G7 mentre tra il 1950 e il 1973, fuori dall’Ue, è stata la più lenta. Il tema dei contributi versati da Londra a Bruxelles (11 miliardi di euro pagati in cambio di trasferimenti per quasi 7 miliardi) appare tutto sommato marginale.

Il vero vantaggio per la Gran Bretagna è infatti l’accesso diretto e senza barriere tariffarie ad un mercato di 500 milioni di persone. Secondo i calcoli del comitato che sostiene la permanenza nell’Ue, ogni famiglia inglese versa all’Europa 340 sterline all’anno (circa 400 euro) ma riceve in cambio, sotto varia forma, benefici per 3mila sterline (3.800 euro). Sinora la permanenza nell’Unione ha inoltre garantito al Paese un flusso di investimenti provenienti dall’Europa di 24 miliardi di sterline l’anno (30 miliardi di euro).

Ci sono però anche voci molto più tiepide sui contraccolpi economici della Brexit. L’opinionista del Financial Times Wolfgang Munchau reputa ad esempio eccessivi certi allarmi e dubita della reale capacità predittiva delle simulazioni economiche utilizzate. Munchau ricorda come inevitabili conseguenze negative potrebbero essere compensate da altre più vantaggiose. La sterlina più debole favorirebbe ad esempio l’export riducendo il deficit nell’interscambio, i prezzi delle case scenderebbero e questo potrebbe anche essere una buona cosa. La City (che genera circa il 10% del Pil britannico) potrebbe perdere alcuni business, ma questo non necessariamente sarebbe un male per l’intera economia. La ricchezza di una nazione, conclude Munchau, dipende in ultima analisi dalle sue capacità e competenze, dalle risorse di cui dispone e dalle politiche con cui è governata. Un gruppo di accademici riuniti nel team “Economist for Brexit”, ha messo a punto un dossier che prova confutare le tesi che prefigurano gli scenari più negativi. In particolare, si sostiene che la City conserverebbe la sua posizione di centro della finanza globale e che regolamentazioni, sussidi e barriere che tuttora esistono nell’Unione rendono conveniente per la Gran Bretagna rinegoziare gli accordi commerciali.

EXPORT E RELAZIONI COMMERCIALI – Il Regno Unito esporta il 51% dei suoi prodotti verso l’Unione Europea (quota che si colloca al 46% includendo anche i servizi). In particolare, l’11% finiscono in Germania, l’8% in Olanda, il 7% in Francia e in Irlanda, il 6% in Italia e Spagna. In caso di uscita dall’Unione, dopo un periodo di transizione di due anni, la Gran Bretagna sarà esclusa da tutti gli accordi che coinvolgono i Paesi membri. Servirà quindi una gigantesca opera di rinegoziazione per siglare almeno 50 tra nuovi accordi bilaterali e trattati. Sulla rapidità con cui saprà muoversi Londra e sulle condizioni che riuscirà a contrattare si gioca molto delle conseguenze economiche di lungo termine dell’eventuale separazione dall’Unione.

EFFETTI PER L’ITALIA – Da un punto di vista commerciale, l’Italia è uno dei Paesi che ha meno da temere. L’interscambio tra Roma e Londra è infatti relativamente modesto. Un indice di sensitività alla “Brexit” messo a punto da Standard and Poor’s in base a scambi commerciali, flussi di investimenti e migrazioni bidirezionali colloca il nostro paese in fondo alla lista insieme ad Ungheria ed Austria e con un valore di appena 0,4. Ai primi posti, cioè i Paesi in teoria più colpiti dall’addio di Londra, ci sono l’Irlanda (3,5), Malta (2,9) e il Lussemburgo (2,4). Francia e Germania presentano un’interdipendenza con la Gran Bretagna doppia rispetto alla nostra, la Spagna tripla. Molto più insidiose per il nostro Paese i contraccolpi che si potrebbero propagare attraverso il canale finanziario. Un’analisi di Bloomberg ricorda come le nostre banche abbiano in portafoglio 419 miliardi di titoli di Stato italiani che potrebbero risentire dell’effetto Brexit nonostante le contromisure della Bce. Questo in una fase in cui il comparto bancario è già sotto forte pressione a causa della complicata gestione di 360 miliardi di euro di crediti deteriorati.

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