Da alcuni anni le università hanno introdotto il “questionario” per gli studenti. In ogni disciplina della laurea triennale e magistrale i giovani, sotto il velo dell’anonimato, compilano un modulo a pallini per valutare il lavoro del docente; in aggiunta, possono esprimere commenti liberi. Di per sé, se ben congegnati, i questionari possono avere la loro utilità. Consentono al docente di verificare come gli studenti percepiscono il suo insegnamento, e di correggere il tiro se occorre. Nel corso del tempo i questionari sono stati modificati – ogni Università ha il proprio – e perfezionati. Non sono però scevri da rischi. Non sempre infatti il gradimento dello studente coincide con la valentia del docente. Ci sono professori brillanti, che esercitano un maggiore appeal, mentre altri, egualmente preparati, risultano meno seducenti. Ci sono discipline più attraenti, altre oggettivamente ostiche. Questo valeva anche ai miei tempi: devo il meglio della mia formazione universitaria a docenti un po’ “noiosi” ma di grande competenza, che ho avuto la pazienza di seguire, sforzandomi d’incamerare i loro tesori di conoscenza e di pensiero.

Ciò detto, molti colleghi dell’area umanistica – ma credo che il fenomeno riguardi tutte le aree – assistono a un fenomeno inquietante. Da una quindicina d’anni la cultura generale dei nostri giovani si è assottigliata; e con essa si è affievolita la capacità psicologica di sostenere le difficoltà. Sull’arco dei decenni, molti docenti hanno dovuto abbassare il livello degli esami, semplificare la bibliografia. I ragazzi vanno in giro per il mondo, anche grazie agli scambi Erasmus, ma la conoscenza delle lingue è superficiale. Esigere che riferiscano su saggi scientifici in inglese o in francese è proibitivo: non parliamo del tedesco. Molti mostrano difficoltà in sede d’esame nel formulare discorsi articolati: si sono impadroniti di nozioni staccate, ma non le sanno includere in una trama. C’è chi durante le lezioni pende dalle labbra del docente, prende chilometri di appunti: ma se gli si chiede di riassumere i concetti testé espressi, hanno difficoltà a riferire i termini di base.

Nei questionari, a detta di molti colleghi, ricorre una critica frequente, riguardante le conoscenze che si danno per acquisite: “Il professore usa un linguaggio troppo tecnico”. Certe volte è inevitabile: vale per l’analisi musicale come per l’analisi matematica, per dire. Ma un collega che insegna i rudimenti musicali mi riferisce le obiezioni per pretese ritenute eccessive: si trattava, alla fine del corso, di riconoscere le note sul pentagramma in chiave di basso! Lo stesso docente è stato criticato perché chiede che si rispetti l’orario per non perdere la parte iniziale della spiegazione, e perché non apprezza l’uso del cellulare per lo scambio di sms durante la lezione. Gli studenti italiani non sono i soli a mostrare un livello culturale così depresso e un atteggiamento così autoindulgente. Ho avuto studenti tedeschi di Storia della musica che non avevano mai ascoltato la Quinta di Beethoven, inglesi che ignoravano l’Otello di Shakespeare, statunitensi che non avevano idea di cosa fosse il Rinascimento. Se Atene piange, Sparta non ride.

Si ha poi l’impressione che solo pochi giovani abbiano la pazienza di esercitarsi, di leggere, di approfondire: insomma, di sforzarsi. La durata dell’attenzione è breve, lo sforzo viene schivato come alcunché di malsano. Ci si attende che tutto sia facile, a portata di mano. Ma ciò indebolisce la cultura e il carattere. Fanno talvolta eccezione gli asiatici, cinesi e coreani in primis. I quali hanno enormi difficoltà ad accedere alla nostra lingua e cultura, ma ci si buttano con entusiasmo. I cinesi devono periodicamente inviare una relazione al loro governo vistata dal docente per attestare i progressi. Sarà questa imposizione a stimolare la volontà d’imparare?

Ora, se debbono misurare la “prestazione” del docente di ruolo, i questionari – tolto qualche risvolto negativo – sono comunque utili. Il problema si aggrava se, come avviene in qualche università, vengono usati per valutare i contrattisti. È ovvio che taluni di questi colleghi precari preferiscano venire a patti con gli studenti. La tendenza ad esigere un impegno minore è dunque in agguato, a scapito della resa formativa. Per concludere: lo strumento “questionario” è insidioso; occorre molto buon senso nel decifrare i dati che esso fornisce.

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