I treni super-rapidi (come il “Freccia Rossa”) sono utilissimi perché consentono di coprire comodamente lunghi percorsi in tempi brevi. Così come i supercomputers, che sono utilissimi oggi praticamente in ogni campo dello scibile perché consentono di eseguire calcoli ed algoritmi complicatissimi in milionesimi di secondo.

Bene, la stessa sensazione la provano molti (me compreso) vedendo all’opera il fenomeno Matteo Renzi. Lui è veramente un superdotato, ha capacità eccezionali, sia di memoria che di eloquio, e in più aggiunge di suo anche grandi doti di simpatia e di cordialità. Non può sorprendere dunque che un personaggio con tutte queste doti faccia una strepitosa e folgorante carriera nel campo in cui si è applicato.

Capita però che la velocità non sia sempre il mezzo migliore per raggiungere certe mete. A volte succede anzi che sia proprio la fretta a creare disastri (come i treni veloci che deragliano quando arrivano in curva a velocità insostenibile).

E’ quello che sta succedendo a Renzi di questi tempi. La sua velocità nell’auto-identificarsi nella figura del “grande statista riformatore” è esagerata. Per certe cose è meglio la prudenza piuttosto che la baldanza. La capacità di mediazione, l’intuito del fine politico, l’esperienza, sono requisiti essenziali negli statisti democratici riformatori, doti che in lui scarseggiano vistosamente.

Probabilmente ciò è dovuto anche all’inesperienza frutto dei suoi 41 anni compiuti a febbraio). In quel ruolo di così alto potere, la giovane età gioca brutti scherzi.

Senza esperienza e senza consolidati ideali capaci di tracciare una sicura via da seguire, il fatto di trovarsi al più alto livello esecutivo di una nazione, circondato da persone il cui ruolo è solo quello di obbedire e compiacere, può solo montare la testa. E’ evidente come Renzi non sia riuscito a evitare per sé e per il suo governo questo “infortunio” caratteriale.

Ma è solo dopo la sua orrenda vittoria sul referendum delle “trivelle” (orrenda perché un presidente del consiglio, e un ex presidente della Repubblica, che invita gli elettori a non andare a votare, sputa nel piatto politico in cui egli stesso mangia), quando ha assunto un tono irridente verso gli sconfitti e si è lasciato andare a toni trionfalistici assolutamente stonati, che è apparsa evidente la sua “montatura”. Come faceva a non prevedere che in quel modo se li sarebbe tirati tutti addosso? Non solo gli inviperiti leaders delle opposizioni, ma anche moltitudini di sconcertati elettori che, seppure convinti a non votare in un referendum che magari non conoscevano abbastanza, certamente non avrebbero ripetuto di lì a poco, nelle elezioni amministrative, lo stesso favore al gasatissimo leader che nel frattempo proseguiva la folle corsa in Parlamento a riforme persino costituzionali mai messe in un programma elettorale votato dal popolo e sostenute, strada facendo, con maggioranze che mai il popolo aveva non solo voluto, ma nemmeno potuto immaginare.

Adesso che la frittata è fatta e che il popolo sta per emettere le sentenze, lui avverte il pericolo e le prova tutte per tentare di evitare il naufragio: promette mari e monti trovando soldi che fino al giorno prima non c’erano (nello stile del più classico populismo, che nemmeno lui ha mai rottamato), e annuncia tutti i giorni l’avvio di una ripresa economica sfavillante che nessuno in Italia riesce a vedere.

Berlusconi nell’arte della comunicazione populista era più suadente, lui però viaggia a doppia, anzi tripla velocità in fatto di populismo quantitativo.

E’ il Pd a pagare ora per queste colpe: non si può sperare di tradire tutti, alleati ed elettori spacciando il tutto con la foglia di fico del pragmatismo e con alleanze impresentabili sperando di farla sempre franca. I nodi, presto o tardi, vengono al pettine.

Ciriaco DeMita, il primo nella democrazia italiana che ha voluto sperimentare, nel 1988, il doppio incarico di segretario del partito e di presidente del consiglio lo ha certamente avvisato della estrema difficoltà di tenere insieme due incarichi così gravosi. Lui, com’è sua consuetudine, non ha ascoltato nessuno e sta portando il suo partito a deragliare insieme a lui.

Renzi ha vinto le primarie del Pd ed è stato nominato segretario, ma di fatto il segretario non lo ha quasi mai fatto. I risultati ora si vedono benissimo. Per coerenza, dopo i risultati dei ballottaggi, nel caso in cui siano sfavorevoli al Partito democratico, dovrebbe lasciare subito almeno l’incarico di segretario che ha gestito in modo fallimentare.

Ormai dovrebbe aver capito anche lui che il chiodo fisso della “governabilità”, sul quale ha puntato tutto il capitale delle sue riforme, è un problema suo, e più in generale dei politici, non della gente.

L’opportunismo politico in favore della partitocrazia, che nel suo “Italicum” risulta palese anche a chi segue solo distrattamente le vicende della politica, ormai è venuto a galla in piena luce e non basta più né la sua eloquenza né la sua bravura nel fare promesse che tutti hanno già smascherato, a fargli risalire la china di una sfiducia che potrebbe presto costringerlo a lasciare  la sua poltrona molto prima della fine del doppio mandato che lui si affanna a promettere.

Peccato! Se Renzi imparasse a spendere meglio il suo enorme talento personale, sarebbe un vero patrimonio per l’Italia politica. Al momento è soltanto un treno senza freni che sta già per deragliare alla prima “curva” politica del vero consenso elettorale.

Meglio fermarlo ora e lasciargli il tempo per meditare.

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