Immaginate se il popolo dell’Unione sovietica non avesse mai sentito parlare del comunismo. L’ideologia che domina la nostra vita non ha, per la maggior parte di noi, nessun nome. Menzionalo in una conversazione e sarai ricompensato con un’alzata di spalle. Anche se i vostri ascoltatori avessero sentito il termine prima, si fatica a definirlo. Neoliberismo: sai di cosa si tratta?” Inizia con queste parole una interessante riflessione sul quotidiano britannico The Guardian in cui l’autore, sostiene che “il suo anonimato è sia un sintomo sia la ragione del suo potere. Esso ha svolto un ruolo importante in una notevole varietà di crisi: la crisi finanziaria del 2007-8, lo spostamento off-shore di ricchezza e potere, di cui i Panama papers ci offrono solo un assaggio, il lento crollo della sanità e dell’istruzione pubblica, la rinascita della povertà infantile, l’epidemia di solitudine, il collasso degli ecosistemi, l’ascesa di Donald Trump. Ma noi rispondiamo a queste crisi come se emergessero indipendentemente, a quanto pare senza sapere che sono state tutte catalizzate o aggravate dalla stessa coerente filosofia; una filosofia che ha – o ha avuto – un nome. Quale maggiore potere ci può essere dall’agire senza avere un nome? Il neoliberismo è diventato così pervasivo che raramente persino lo riconosciamo come un’ideologia.”

Per questo motivo ha destato un certo clamore l’articolo di due economisti del Fondo monetario internazionale in cui, forse per la prima volta da quella fonte, discutono in maniera esplicita i limiti e i problemi dell’agenda neoliberista. Questa, scrivono, consiste in due punti: il primo è determinare una maggiore concorrenza, raggiunta attraverso la deregolamentazione e l’apertura dei mercati nazionali, compresi i mercati finanziari, alla concorrenza estera attraverso la rimozione delle restrizioni ai movimenti di capitali attraverso i confini di un paese. Il secondo è un ruolo minore per lo Stato, raggiunto attraverso la privatizzazione delle sue industrie e di alcune sue funzioni di governo (sanità, istruzione, ecc.) e attraverso l’imposizione di limiti alla capacità dei governi di ricorrere a deficit fiscali e ad accumulare debiti (le politiche di austerità): frenare la dimensione dello Stato è un aspetto chiave del programma neoliberale.

I due economisti, per la prima volta in maniera chiara, riconoscono dunque che le politiche di austerità non solo generano ingenti costi sociali ma aggravano la disoccupazione nonché la frequenza della crisi. Insomma mentre i benefici in termini di aumento della crescita sembrano abbastanza difficili da stabilire i costi in termini di aumento della disuguaglianza sono enormi. E l’aumento della disuguaglianza a sua volta sfavorisce il livello e la sostenibilità della crescita (che, ricordiamoci sempre, non è lo sviluppo!).

La prova del danno economico delle disuguaglianze suggerisce che i politici dovrebbero essere più sensibili alla redistribuzione di quanto, in effetti, non lo siano stati […] le politiche potrebbero essere progettate per mitigare alcuni degli effetti in anticipo – per esempio, attraverso una maggiore spesa per l’istruzione e la formazione, che espande l’uguaglianza di opportunità […] E le strategie di risanamento dei conti pubblici, quando sono necessarie, potrebbero essere progettate per ridurre al minimo l’impatto negativo sui gruppi a basso reddito […] Questi risultati suggeriscono la necessità di una visione più sfumata di quella dell’agenda neoliberale. […] I decisori politici, e le istituzioni che li consigliano come il Fmi, debbono essere guidati non dalla fede ma dall’evidenza di ciò che funziona”.

Il ripensamento delle politiche economiche neoliberiste, che hanno dominato negli ultimi 30 o più anni, deve però passare per una discussione culturale dell’ideologia e soprattutto della (pseudo) scienza sui cui sono basate, cioè dell’economia neoclassica che ormai domina incontrastata sia nell’accademia che nel senso comune. Tuttavia, se alcuni commentatori hanno scorso in questo documento “la morte del neoliberismo vista dall’interno” questo ripensamento è molto difficile da essere attutato finché i principali consiglieri dei governi (e del nostro in particolare) continueranno a essere selezionati da quella schiera di economisti cresciuti a pane e ideologia neoliberista e che non sono in grado neppure di iniziare una discussione argomentata sul tema. In questo bisogna dare atto ai due economisti del Fmi di essere anni luce lontani dalle patrie paludi.

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