La mattina del 31 maggio, nella Striscia di Gaza, sono state eseguite le prime tre di 13 condanne a morte annunciate dall’amministrazione di Hamas. Le altre 10 dovrebbero aver luogo alla fine del mese sacro di Ramadan.

Per giustificare il ritorno della pena di morte il numero due di Hamas, Ismail Haniyeh, ha fatto ricorso a un argomento la cui fondatezza non è mai stata verificata e cui non crede quasi più nessuno neanche negli Stati Uniti: che, nei confronti del crimine, il boia abbia un effetto deterrente maggiore rispetto a quello di ogni altra pena. I tre uomini messi a morte la settimana scorsa erano colpevoli di omicidio.

Chi scrive ripudia per motivi di principio la pena di morte. Ma quando, come a Gaza e in molti altri luoghi in cui vi si ricorre, le esecuzioni avvengono al termine di processi sommari e con prove acquisite mediante la tortura, l’opposizione alla pena capitale dovrebbe essere ancora più netta.

Per il Centro al-Mezan per i diritti umani di Gaza, quella di Hamas non è nient’altro che “giustizia di strada”. Secondo il Centro palestinese per i diritti umani, che ha riscontrato irregolarità procedurali anche negli ultimi tre processi capitali, dal 2007 – quando Hamas ha assunto il potere – nella Striscia di Gaza sono state emesse 88 condanne a morte, 46 delle quali eseguite. Più della metà delle condanne sono state inflitte per “collaborazionismo” con l’esercito di Israele, le altre per omicidio. Ma nel febbraio di quest’anno è stato passato per le armi anche un comandante di Hamas per non meglio precisati reati “morali”.

Teoricamente, ogni condanna a morte emessa a Gaza dovrebbe essere ratificata dal presidente palestinese Mahmoud Abbas, ma dati i rapporti tra Hamas e Fatah questa procedura non è mai stata rispettata. Ma Haniyeh non è il solo, da quelle parti, a credere che la pena di morte sia un buon deterrente. Lo pensa anche il nuovo ministro della Difesa israeliano, Avigdor Liberman.

Dal 2015 il suo partito, Yisrael Beitenu, invoca la pena di morte contro i terroristi processati dalle corti marziali (ossia, solo per i palestinesi). Nel luglio dell’anno scorso era stato il primo ministro Benjamin Netanyahu a premere perché venisse bocciata la proposta di legge presentata da Sharon Gal, all’epoca deputato di Yisrael Beitenu. I recenti negoziati per l’ingresso di Liberman al governo hanno spinto Netanyahu a cambiare idea. Se oggi Yisrael Beitenu ripresentasse la proposta di legge, il Likud non si opporrebbe.

In Israele la pena capitale è stata imposta ed eseguita una sola volta, nel 1962, quando fu messo a morte il criminale nazista Adolph Eichmann. Il paese ha abolito la pena di morte per i reati ordinari nel 1954 e, all’interno delle Nazioni Unite, vota regolarmente a favore della risoluzione sulla moratoria delle esecuzioni capitali.

La pena di morte resta in vigore nel codice militare per genocidio, omicidio di persone perseguitate commesso durante il regime nazista, atti di tradimento in base alla legge militare e alla legge penale commessi in tempo di ostilità, uso e porto illegale d’armi. Il codice militare prevede che una condanna a morte debba essere inflitta con l’unanimità dei tre giudici sia del processo di primo che di quello di secondo grado.

Nel corso dei negoziati con Netanyahu per entrare al governo, Liberman ha ottenuto l’assenso alla richiesta di modificare la procedura, in modo che la pena di morte sarebbe decisa con la maggioranza di due giudici. Difficile che alla Knesset possa passare la posizione di Liberman. All’interno della coalizione di governo c’è un partito esplicitamente contrario, Kulanu, del ministro delle Finanze Moshe Kashlon. Ma mai dire mai…

Per questo, è stato molto opportuno che contro l’idea di Liberman abbia preso la parola l’ex procuratore generale Yehuda Weinstein: “Come deterrente non servirebbe a niente, dato che verrebbe applicata nei confronti di criminali che agiscono per motivi ideologici e che non hanno certo paura di morire. E oltretutto è immorale“.

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