di Ilaria Bifarini

Cosa ne sarà delle Pmi italiane? Le piccole e medie imprese rappresentano la quasi totalità delle imprese nazionali, ma il nuovo diktat è una ricerca ossessiva della crescita. Sono ben 4 milioni e 400 mila le piccole e medie imprese italiane (Pmi), storico fiore all’occhiello dell’economia nazionale. Un universo vasto e articolato, fatto di imprese a conduzione familiare, piccole eccellenze dell’artigianato locale, aziende enogastronomiche, filiere di lavorazione, dislocate tanto nel nord industriale che nel meridione delle tradizioni culinarie. Dalle rilevazioni risulta che il tasso di densità delle Pmi in Italia è del 7,2% – ossia per ogni 100 abitanti ce ne sono almeno 7 – contro una media europea del 4,4%.

Sarà forse questo disallineamento con l’Europa a destare preoccupazione, tanto da spingere il neo presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, al suo discorso di insediamento, ad affrontare la questione? Senza mezzi termini, con parole da neolingua orwelliana – in cui a un semplicismo lessicale corrisponde un impoverimento dei contenuti e dei concetti – afferma: “Piccolo non è bello”. La dimensione ridotta di un’azienda, secondo il neopresidente, può essere accettabile solo nella fase iniziale della vita di un’impresa, la cosiddetta (sempre in neolingua) fase di “start up”, dopodiché dovrà inseguire il modello di crescita e sviluppo delle grandi imprese. Già, perché “l’industria del futuro richiede dimensioni adeguate”, continua, e “crescere deve diventare la nostra ossessione“.

Cosa voglia dire crescere, inteso in termini dimensionali, non lo sappiamo. Solitamente un’azienda è di dimensioni considerevoli quando supera i 50 dipendenti, e in Italia solo il 4% di tutte le Pmi supera i 10. Molte di queste aziende non producono utili rilevanti, schiacciate dalla crisi e dal fisco, e fanno ricorso alla leva finanziaria, chiedendo credito alle banche, per far fronte alle loro difficoltà contingenti o investire nel futuro. Non contribuiscono alla ricchezza finanziaria del paese, ma danno un forte impulso all’economia reale, occupano giovani e famiglie, gli garantiscono un futuro e una speranza di continuare a vivere in Italia, senza essere costretti a cercare opportunità all’estero. Tradizionalmente, rappresentano la peculiarità del sistema industriale italiano e sono state fucine di eccellenze locali, in un contesto socio-economico in cui, al contrario, “piccolo era bello”, anzi perfino elitario, di nicchia.

Oggi il sistema capitalistico ha spostato l’asse dall’economia reale a quella finanziaria, e, ancora peggio, alla speculazione che ne deriva, tanto da essere stato ribattezzato “capitalismo ultrafinanziario”. In un tale sistema non c’è spazio per la ricchezza intesa come benessere della popolazione, come garanzia della sua distintività, come tutela del lavoro quale condizione di sviluppo umano. Le banche hanno cessato il loro ruolo di supporto e di credito allo sviluppo, preferendo investire  in prodotti finanziari dai quali viene generato altro capitale, in un sistema autoreferenziale in cui i profitti nascono dalla speculazione, senza passare attraverso il lavoro e la produzione. Dall’economia reale siamo passati a un’economia distopica, eppure reale.

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