Quella appena trascorsa è stata una delle settimane in cui sono morte più persone nel disperato tentativo di raggiungere l’Italia via mare. Ma c’è stato un momento, da gennaio a maggio 2015, in cui morire è toccato a un migrante ogni 16. La storia degli sbarchi sulle coste siciliane a partire dal 2013 insegna che per prevenire i naufragi l’unica opzione sono i corridoi umanitari. Per quanti mezzi di salvataggio ci siano nel Canale di Sicilia, quel tratto di mare resta sempre una condanna a morte. “In questo momento al largo delle nostre coste ci sono diverse missioni pronte a intervenire in caso ci siano imbarcazioni in difficoltà – commenta Matteo De Bellis, ricercatore ad Amnesty International e responsabile delle campagne sull’Italia – impossibile dire se i mezzi siano sufficienti, però, visti i mesi difficili che si prevedono con l’estate”. E come sempre, quando l’Europa ha cercato di fare un passo indietro, chi ha pagato il prezzo sono sempre stati i migranti. “Se sotto il profilo dei salvataggi in mare Bruxelles ha fatto qualcosa per intervenire – sostiene De Bellis – sotto il profilo dell’accesso ai corridoi umanitari per evitare questi viaggi, si è fatto pochissimo. E il viaggio è stato e resta pericoloso”. Ma i ponti aerei diretti per portare migranti in Europa scavalcando il mare non sono mai stati un’opzione. Al contrario, si è sempre solo scelto di cercare di tamponare l’emergenza.

Dopo i naufragi dell’ottobre 2013: Mare Nostrum – In due giorni, il 3 e l’11 ottobre 2013, il mare di Lampedusa inghiotte 626 persone. La commozione generale spinge il governo italiano, guidato allora da Enrico Letta, a varare la prima ed unica (fino ad oggi) missione umanitaria di un governo europeo nel Mediterraneo. Grava solo sulle spalle italiane (eccetto un aiuto di due mesi della marina slovena) e vede impegnate tre navi per salvataggi, la San Marco, due fregate, due droni e gli aerei della portaerei San Giusto. In tutto costa all’Italia 114 milioni di euro (9,5 al mese) e porta in salvo, secondo il Viminale, oltre 100mila migranti. Con Mare Nostrum, le navi della Marina italiana sconfinano nelle acque territoriali di Malta, a ridosso delle acque libiche. Uno sforzo enorme a cui corrispondono, in Europa, tante critiche. Il Ministero degli Esteri inglese è il più esplicito: considera Mare Nostrum un “pull-factor” (fattore di spinta) per i flussi migratori verso l’Europa. Se Letta non c’era più per difendere la missione italiana, chi è rimasto anche nell’esecutivo Renzi è il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che ritira la missione sotto i colpi di Bruxelles e dell’opposizione, soprattutto leghista. Non valgono a nulla i richiami di organizzazioni internazionali e Ong come l’Unhcr e l’Oim che smentiscono la versione di Londra. Mare Nostrum sarà sostituito da una nuova operazione coordinata da Frontex e con un terzo dei finanziamenti. Durante Mare Nostrum in Italia sono sbarcate circa 166.700 persone.

La paura per quel che verrà dopo –  “In seguito alle attività operate nel contesto di Mare Nostrum, la percentuale dei morti rispetto a quella di quanti riescono ad attraversare, che si attestava oltre il 3%, è diminuita all’1,9%, pari a una persona morta ogni 53 che attraversano”, scrive Amnesty International nel report Vite alla deriva del 2014. La scomparsa della missione preoccupa le ong e non solo. Anche l’agenzia di pattugliamento delle frontiere Frontex teme che si ricominci a morire con la stessa frequenza di una volta: “Va sottolineato che il ritiro delle navi dall’area (costiera libica, ndr), se non pianificato nel modo corretto e annunciato con buon anticipo, è probabile che possa provocare un aumento nel numero di morti”. La previsione degli analisti si avvera: dopo Mare Nostrum, prima che il nuovo dispositivo europeo sia rafforzato adeguatamente, il tasso di mortalità nel Mediterraneo dice un morto ogni 16 migranti.

Triton: una missione inadeguata  Meno di 3 milioni di euro al mese, un mandato esplorativo fino a 55 chilometri a sud di Malta e della Sicilia, un parco mezzi insufficiente a confronto con Mare Nostrum. Sono questi i motivi per cui, da novembre 2014 a maggio 2015, l’operazione europea Triton è un fallimento. La coordina l’agenzia Frontex con la partecipazione di 26 Paesi membri Ue (sette in una prima fase). Serve un altro naufragio perché qualcuno a Bruxelles si renda conto che va potenziata. Il 18 aprile 2015 un barcone si ribalta in acque territoriali italiane. I morti accertati sono 58, i dispersi tra i 700 e i 900. “Triplicheremo le risorse finanziarie per questa missione – dice Angela Merkel il 26 maggio 2015, due settimane dopo aver discusso a Bruxelles la nuova Agenda per l’immigrazione – per la Germania posso aggiungere: se scopriremo che non sono sufficienti, ridiscuteremo ancora. I soldi non devono essere un problema in questo caso”.

La Commissione europea aggiunge 26,25 milioni di euro per Triton e Poseidon, la missione analoga nell’Egeo, fino al termine del 2015, e stanzia altri 38 milioni di euro in vista del 2016 per la sola Triton. Il parco mezzi raddoppia (3 aerei, 6 pattugliatori, 12 barche di sorveglianza, due elicotteri, l’area di competenza arriva fino a 255 chilometri a sud della Sicilia. E gli effetti si vedono: il tasso di mortalità si riduce ad un annegato ogni 427 migranti, mai così basso in questi ultimi tre anni. A contribuire sono anche missioni “extra-Triton”. Irlanda, Gran Bretagna e Germania hanno le loro navi a largo della Sicilia: un preludio di quello che diventerà Eunavfor Med, la prima missione di pattugliamento realmente europea. Nel frattempo si sgonfia la rotta del Mediterraneo centrale, mentre aumentano i flussi dalla Turchia alla Grecia. E a Bruxelles si comincia a pensare al negoziato con Ankara per fermare gli arrivi.

EUNavFor Med e gli altri: chi salva i naufraghi in mare – Il 22 giugno l’Alto Commissario per gli affari esteri a Bruxelles Federica Mogherini ha lanciato la missione europea Eunavfor Med, ribattezzata dalla stessa Lady Pesc Sophia, per renderla “più umana”. Il suo scopo principale – dichiarato – è fermare i trafficanti. La missione è stata anticipata da un cablo di Wikileaks, pubblicato lo scorso maggio, in cui si leggevano tutti i timori di creare delle regole d’ingaggio da stabilire per poter “colpire” le navi dei trafficanti. Divisa in tre fasi, la missione ha svolto operazioni di intelligence, si è poi spinta in acque internazionali, per poi – da maggio – addestrare la Guardia Costiera libica. Il suo mandato permette di pattugliare un’area fino alle 20 e le 40 miglia a nord delle acque territoriali libiche attraverso cinque navi (di cui ammiraglia è la portaerei della Marina Militare Cavour) e sette aerei, messi a disposizione a turno dai 24 Paesi che prendono parte alla missione. Da quando è entrata in vigore, in Italia ci sono stati complessivamente circa 133mila sbarchi (13mila, invece, i migranti salvati). Gli arrivi sono ricominciati a salire non appena è entrato in vigore l’accordo Turchia-Unione europea, che ha di fatto chiuso la rotta del Mediterraneo orientale. Ma non ha chiuso il rubinetto dei flussi migratori, che si sono semplicemente spostati altrove. In media, oggi, un migrante ogni 38 tra coloro che scelgono la via dalla Libia all’Italia scompare o annega durante il viaggio.

A coordinare le operazioni di salvataggio è la Capitaneria di Porto della Guardia Costiera a Fiumicino, l’unico corpo costantemente coinvolto nei salvataggi. Qualunque sia il mandato europeo, la Guardia Costiera ha sempre svolto la stessa missione, nonostante le difficoltà. In uno degli ultimi comunicati, il 24 maggio, c’è una frase che tradisce la difficoltà dell’impresa: “L’elevato numero di operazioni di soccorso condotte negli ultimi due giorni, con il salvataggio di oltre 5600 persone, ha comportato l’impiego di tutti gli assetti navali disponibili in area”. Più di così è impossibile. Per fortuna esistono anche le missioni di organizzazioni non governative e filantropi privati: in tutto cinque imbarcazioni. Una boccata d’ossigeno, nell’emergenza.

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