E così, dopo due anni dal primo annuncio, è stata finalmente approvata la legge delega di riforma del terzo settore e revisione della disciplina dell’impresa sociale. La norma è stata accolta con giudizi molto positivi da una parte degli addetti ai lavori e dei soggetti a vario tipo direttamente coinvolti dalla materia legislativa. Qualcuno ha parlato di tappa storica, di una delle grandi riforme che trasformeranno il paese, altri di punto di non ritorno per lo sdoganamento del terzo settore e dell’impresa sociale come pilastri portanti del nuovo welfare. Ma cosa possiamo dire al di là dei facili entusiasmi e dei commenti di facciata sulla nuova disciplina?
In linea generale sicuramente che è una norma che intende mettere un maggiore ordine nel quadro confuso e assai disordinato del terzo settore nazionale. I due anni impiegati a costruirla sono serviti a trovare compromessi, smussare gli angoli, migliorarne le debolezze più esplicite. A dimostrazione che fare le riforme in fretta e con eccesso di piglio decisionale non è una buona strada per raggiungere traguardi complessi.

Il terzo settore esce dalla legge delega approvata in Senato come insieme composito e articolato di forme giuridiche e attori che possono operare lungo un continuum che contempla l’azione del volontariato da un lato fino a arrivare a imprese professionalizzate e impegnate nella produzione e vendita di beni e servizi di welfare con chiari vincoli alla distribuzione degli utili, dall’altro. Molte misure previste dalla legge affrontano nodi importanti come la regolazione dei centri di servizio per il volontariato, l’istituzione del servizio civile nazionale aperto anche agli stranieri soggiornanti. La previsione di un fondo per il finanziamento delle attività di interesse generale promosse dagli enti di terzo settore, l’istituzione di un organismo unico di rappresentanza nazionale per il terzo settore, la previsione di un registro unico per le diverse forme organizzative, la ridefinizione delle categorie di lavoratori svantaggiati da assumere nelle organizzazioni di inserimento lavorativo tenendo conto delle nuove forme di esclusione sociale, anche con riferimento ai princìpi di pari opportunità e non discriminazione di cui alla vigente normativa nazionale e dell’Unione europea. La costituzione di un’Iri del sociale da affidare al consulente finanziario personale del premier Vincenzo Manes è forse un eccesso di zelo nei confronti del mondo ruspante della finanza creativa che bene rappresenta la visione renziana della politica e dell’economia e probabilmente era una misura che poteva essere anche accantonata. Nell’insieme comunque fino a qui si tratta di provvedimenti attesi e importanti che dimostrano la competenza di chi ha seguito in prima persona l’iter della riforma.

Arriva un’esplicita apertura verso il mondo degli cosiddetti “investimenti pazienti”. Sempre che esistano

Il grande dibattito sollevato dalla riforma ha riguardato e ancora oggi riguarda tuttavia anche un altro tema molto controverso: quello dell’impresa sociale e del ruolo che tale soggetto deve avere nell’ambito dell’economia complessiva del terzo settore. In Italia le imprese sociali esistono a dire la verità e per fare memoria per chi ne parla oggi come se si trattasse di soggetti mai esistiti fin dall’inizio e degli anni 90 e la loro funzione sociale è stata sancita dalla legge 381/91 sulla cooperazione sociale. Le cooperative sociali occupano secondo i dati forniti da una recente indagine di Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises) attualmente circa 400.000 addetti e offrono una serie di servizi che spaziano dagli asili nido, ai centri residenziali per disabili, alle case di riposo fino alle strutture di accoglienza per profughi e minori non accompagnati. Intorno al 2000 ci si era iniziati a interrogare se a fianco di questa forma di impresa sociale non fosse opportuno e strategico riconoscere anche altre forme giuridiche capaci di fare transitare il mondo associativo verso modelli più produttivi di intervento e soprattutto di intercettare nuovi capitali attraverso la forma della società per azioni e della srl. Era nata da questa mobilitazione il dlgs 155/2006 sull’impresa sociale che riconosceva una nuova forma giuridica di impresa vincolata alla non distribuzione degli utili e che prescriveva prescrizioni assai restrittive sulle forme di governance.

Complice anche l’assenza di benefici fiscali specifici più che il vincolo alla distribuzione di utili, l’impresa sociale ai sensi del dlgs 155 non è mai decollata e si contano a oggi poche centinaia di imprese che hanno assunto tale status giuridico. La crisi economica del settore pubblico, la diminuzione dei finanziamenti da parte degli enti locali e l’emergere di interessi strumentali da parte del mondo profit interessato a investire nel sociale hanno creato le condizioni per rilanciare il tema della capacità di fare impresa attraverso l’acquisizione di capitali nell’ambito di azioni con finalità sociali. Le due posizioni che si erano contrapposte nelle precedenti versioni della legge erano da un lato quella più ortodossa dei contrari all’introduzione di nuove forme di impresa sociale con la facoltà di remunerare il capitale investito e dall’altra quella dei sostenitori della posizione secondo cui per definirsi impresa sociale è sufficiente lavorare in un settore di pubblica utilità mostrando la capacità di produrre risultati sociali positivi misurabili.

La nuova legge risolve questo dilemma definendo come imprese sociali quelle organizzazioni che devono perseguire finalità sociali all’interno di settori di attività di interesse generale senza limitazione e quindi in un perimetro più ampio di quello permesso alle cooperative sociali destinando i propri utili prioritariamente al conseguimento dell’oggetto sociale ovvero a riserva indivisibile e la parte restante a remunerazione del capitale investito per una quota non superiore all’interesse dei buoni postali fruttiferi più il 2% (ovvero poco più del 4%) così come accade per le cooperative sociali. Si tratta di una esplicita apertura verso il mondo degli cosiddetti “investimenti pazienti” (sempre che esistano perché fino ad ora non si sono visti) sostenuta da un universo composito e variegato di sostenitori che vanno dalla Human Foundation di Giovanna Melandri membro della Taskforce G8 sui Social Impact Investments fino a non marginali settori della cooperazione sociale e delle fondazioni. Ma certamente è anche una definitiva presa di posizione rispetto alle precedenti versioni della legge che parlavano di una generica impresa sociale senza vincoli della distribuzione degli utili da sdoganare attraverso la proposta dell’introduzione di strumenti di misurazione di impatto sociale positivo. Che in una nazione dove manca una cultura minima della valutazione in tutti i comparti della pubblica amministrazione e dell’economia, sarebbe stato come dire di volere vincere le Mille Miglia a cavallo di un somaro.

C’è da chiedersi come funzionerà il monitoraggio e quali saranno i benefici fiscali

L’introduzione della nuova forma di impresa sociale lascia tuttavia anche diverse questioni aperte. Non si tratta tanto di paventare il rischio di una privatizzazione progressiva del welfare, come rimarcato a diversi parlamentari di Sel e del Movimento 5 stelle, perché per andare in tale direzione oltre alle nuove forme giuridiche servono misure di policy congruenti e è su questo piano eventualmente che dovrebbe essere spostata la discussione (e qui si aprirebbe il baratro di dove le politiche sociali stanno portando il welfare da almeno quindici anni a questa parte). Piuttosto c’è da chiedersi in cosa si sostanzieranno le misure di monitoraggio e controllo del fenomeno per le vecchie e nuove organizzazioni di terzo settore e di quali saranno i benefici fiscali e le forme di sostengo pubblico di cui esse potranno usufruire e a quali condizioni. Diversi commenti politici lasciano intravedere che rispetto a tali temi sia grande la confusione sotto il sole.

Per la deputata Ileana Argentin del Pd per esempio “episodi come quelli legati a Mafia Capitale non si ripeteranno anche grazie allo scudo di questa legge”. Perché questo dovrebbe accadere non è chiaro visto che i controlli dovrebbero essere garantiti con l’azione esterna del ministero del Lavoro e dall’Agenzia delle entrate in una fase storica di deregulation dei mercati del lavoro e di annunciata riduzione delle misure di verifica fiscale, da un lato, e da una rete di accertamenti interni alle stesse organizzazioni di terzo settore che hanno dimostrato anche in passato di non essere del tutto in grado di filtrare i comportamenti corretti da quelli impropri e arbitrari degli enti più malandrini, dall’altro. Edoardo Patriarca ex portavoce del Forum del terzo settore, ora in quota Pd, ha chiarito che una prospettiva centrata sui controlli non poteva essere accettata perché avrebbe fatto passare un’idea compromettente e distorta di terzo settore. Il che è sicuramente importante da puntualizzare perché la grandissima maggioranza delle organizzazioni di terzo settore opera ancora oggi nel pieno rispetto della legalità. Vero è però anche che il terzo settore non è immune da casi di frode e di comportamenti illeciti e che lo stupore di molti politici nei confronti di quanto accaduto a Roma con Mafia Capitale sa molto di coda di paglia. “Non sapevamo niente e non abbiamo visto niente” – continuano a ripetere, quando tutti o quasi avevano come minimo intuito che qualcosa di non pulito stava accadendo da diversi anni in terra capitolina e non pochi ne avevano tratto vantaggio. Come andrà a finire dunque la partita dei controlli rimane questione aperta. Probabilmente si andrà a richiedere alcuni documenti come il bilancio sociale per valutare l’impatto sociale dei diversi enti sulla comunità con i risultati deludenti che ci si può facilmente immaginare.

La medesima ambiguità nel valutare la legge si ritrova quando si parla di misure fiscali. Le misure fiscali sono da sempre il nodo principale di ogni riforma del terzo settore, in Italia così come nel resto del mondo. Sono le misure fiscali che permettono di attribuire vantaggi competitivi a taluni soggetti a discapito di altri e sono ancora le misure fiscali che, anche se sempre più modesti, costituiscono il principale incentivo per assumere una forma giuridica al posto di un’altra. Una parte importante della partita su quali indirizzi prenderà il terzo settore nel nostro paese si giocherà dunque su un tavolo che non è più quello, corretto e auspicabile, della costruzione condivisa del dibattito parlamentare ma sull’altro più scivoloso e poco trasparente della delega al Governo. Trattandosi di una legge delega i principi generali sopra richiamati devono infatti essere tradotti per diventare operativi in decreti applicativi, e ciò può essere fatto in molti modi. In un modo coerente con quanto emerso dalla costruzione condivisa della riforma, per esempio limitando i rischi della diffusione impropria di finte imprese sociali che aprono la strada a comportamenti illeciti diffusi sotto il cappello della utilità sociale. Oppure attraverso accelerazioni e deviazioni volute dai soggetti maggiormente interessati a mettere le mani sui nuovi mercati del welfare e dei cosiddetti beni comuni e che continuano a parlare di impresa sociale come produttrice di un generico valore sociale che dovrebbe prendere corpo forse per magia indipendentemente dalle logiche impietose delle leggi di mercato.

Visti gli interessi in campo si dovrà verificare alla fine chi avrà tratto i maggiori vantaggi da questa nuova legge. Se i cittadini, le organizzazioni di terzo settore, alcune di esse o i loro finanziatori di mercato, più o meno visibili o più o meno occulti. E si dovrà capire anche se a avere vinto la partita saranno tutti i volenterosi che si sono impegnati per migliorare l’efficacia, la trasparenza e la democraticità del terzo settore, oppure i furbacchioni che spacciano social investment, social innovation e imprese ibride come il futuro del welfare prossimo venturo. Al momento il brindisi per la grande festa della storica riforma del terzo settore rimane ancora sospeso.

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