È un progetto che parte da lontano quello dei Grandmother Safari, ensemble sarda composta da sei elementi, fondata nel 2007, e che fa della sperimentazione il suo punto di forza, attingendo da vari generi, dal jazz al rock e alla psichedelia. Dal giorno della formazione sono trascorsi circa nove anni, periodo che naturalmente la band ha sfruttato per esercitarsi, creare e trovare la formula giusta per comporre tutti insieme. È per questo che si stenta a credere che il disco omonimo, uscito da poco più d’un mese, sia quello d’esordio. “Grand Mother Safari lo definirei come la sintesi di un lavoro collettivo pluriennale” – spiega il pianista della band Mario Mereu. “È una antologia di brani che per noi rappresentano il nostro immaginario comune. Non è un concept album, è il nostro greatest hits, anche se non ci sono hits. I testi sono abbastanza criptici, la voce è un alibi per catalizzare l’attenzione ed è uno strumento come gli altri. Cerchiamo di avere uno stile nostro e di non assomigliare a nessuno. Cerchiamo in tutti i modi di non sembrare qualcosa di già sentito”.

gmsQual è il vostro background artistico?
Veniamo tutti da precedenti esperienze in altri gruppi di diversa estrazione: ci siamo fatti le ossa con diversi generi, dal punk al rock, fino al reggae e al jazz. Il fatto di riunirsi e incontrarsi ha fatto in modo che ognuno portasse qualcosa dal proprio genere di provenienza. Così abbiamo cercato di farne una sintesi direttamente in sala prove.

Cosa c’è nel vostro bagaglio musicale?
Come ascolti, anche se non si sente, c’è Jimi Hendrix, i Pink Floyd e i Soft Machine, il terzo album in particolare. E poi, per quanto riguarda il nostro cantante Omar, i Radiohead e i Flaming Lips; i fiati, invece, prediligono il jazz di Miles Davis e Chet Baker. Tutti quanti invece apprezziamo molto gli Stereolab e siamo tutti d’accordo che i norvegesi Jaka Jazzist siano il nostro gruppo di riferimento.

Cos’è che vi ha spinto a fare musica?
Sicuramente la passione. E poi il fatto che la musica ti dà un riscontro immediato. Suonare è un piacere e poi è bello perché si incontra gente anche se poi ti pagano due soldi o ti pagano giusto le spese.

Mi spiegate l’origine del nome Grandmother Safari?
L’origine è fitta di mistero. Diciamo che abbiamo voluto mettere un elemento di intimità e di esotismo. Volevamo collegarci alla musica del cinema, certi nostri brani infatti sono una narrazione in cui l’ascoltatore chiude gli occhi ed è immerso in una realtà fisica, potrebbe essere un film senza visione ma con la musica. Il safari può esser paragonato a un’esperienza psichedelica, oppure più banalmente, è un viaggio tra i vari generi, perché può capitare che in uno stesso brano ve ne siano due o tre diversi. Da questo punto di vista, siamo umili discepoli di Frank Zappa, che usava in maniera disinvolta i vari generi. Si fa il verso ai Grand Mother of Inventions.

Qual è il criterio in base al quale assegnate i titoli ai vostri brani?
I titoli delle canzoni sono come dei suggerimenti, sia per l’ascoltatore – che invitiamo a immaginare e ad avere certe visioni grazie alla musica – sia un appiglio per noi, per ricordarci di un brano che sta nascendo. Per il primo singolo Dunia, abbiamo usato una parola araba che si è diffusa in Africa e che vuol dire ‘terra’, o ‘cose terrestri’, in cui abbiamo utilizzato una base afro-beat ispirandoci a Tony Allen. In quel caso siamo partiti dalla musica e il titolo è venuto in seguito. Love Geometry è un brano che parla d’amore e di rapporti personali tra due partner. Lines & Circles perché crediamo nelle forme geometriche e nella forma circolare della musica, sono più indizi che prove certe. Il titolo è un trampolino per immaginare. Gms è l’acronimo del nostro nome, è il brano più lungo a chiusura del disco, è il tributo a noi stessi.

Qual è il vostro metodo di composizione?
Il nostro metodo è quello di arrivare in sala prove senza avere nulla di pronto, mettere il registratore al centro della saletta, provare a improvvisare e poi riascoltare quello che ci può interessare. La musica è matematica e quindi quando si fa un pezzo senza voce noi dobbiamo contare e seguire il brano. Ricordarci che dopo un passaggio ce n’è un altro. Questo all’inizio, poi, quando l’abbiamo metabolizzato, è tutto più semplice e naturale. A volte quando suoniamo in pubblico siamo talmente concentrati sulla musica che ci astraiamo da tutto.

Qual è l’idea di base che lega i brani tra loro?
Non c’è un tema che viene sviluppato, ma il filo conduttore dei diversi brani è la massima libertà nel comporre ed eseguire i brani. Non abbiamo seguito né un genere, né un tema. Ci siamo fatti guidare solo e sempre dalle orecchie. Se qualcosa non ci stava, l’abbiamo fatto saltare tranquillamente.

Lavorate in gruppo da 9 anni: come mai ci avete messo così tanto per il disco d’esordio?
Abbiamo avuto varie vicissitudini, cambi nella line up e abbiamo trovato un produttore solo dopo anni. Di questi tempi non è per niente facile trovare un’etichetta che produca interamente un album di debutto.

Quali sono le vostre ambizioni?
Se ci guardiamo intorno vediamo ottime band che riescono a fare tour europei. Noi siamo in sei e abbiamo un freno a certi tipi di tour: il pianoforte è abbastanza pesante ed è ingombrante da trasportare. Non ci scoraggiamo, le nostre ambizioni erano fare una fotografia di quel che abbiamo fatto, per ora ci siamo riusciti con questo disco e aspettiamo di vedere quel che arriverà.

Un’ultima curiosità riguarda la copertina.
È un ibiscus che vuole rappresentare un’esplosione di psichedelia e di suono, ma è un peccato che abbia solo cinque petali e non sei come i componenti della band.

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