La Corte europea dei diritti umani ha accolto in via preliminare il ricorso contro l’Italia presentato da Amanda Knox, la ragazza prosciolta in Cassazione dall’accusa di aver partecipato all’uccisione di Meredith Kercher. La giovane sostiene di aver subito un processo iniquo e di essere stata maltrattata durante l’interrogatorio. La Corte di Strasburgo ha ritenuto valido il dossier presentato dai legali della Knox ed ha comunicato il ricorso al governo italiano affinché possa difendersi.

Nel gennaio scorso il tribunale di Firenze aveva assolto con formula piena la Knox dall’accusa di avere calunniato alcuni agenti della squadra mobile di Perugia che indagavano sull’omicidio di Meredith. In particolare la Knox era accusata di calunnia per avere sostenuto di essere stata “forzata” dagli investigatori a dire che era stata nella casa dell’omicidio insieme a Patrick Lumumba, che fu coinvolto nell’inchiesta proprio a causa delle frasi dell’americana e poi riconosciuto estraneo alla vicenda. Il procedimento avviato dalla procura di Perugia era stato poi trasmesso a Firenze in quanto tra le persone offese dal presunto reato ci sarebbe stato anche il pm Giuliano Mignini, titolare dell’indagine. Il pm di Firenze aveva chiesto per la Knox una condanna a due anni e otto mesi di reclusione.

Un mese fa, infine, sono uscite le motivazioni di quella sentenza di assoluzione. In pratica il tribunale scrisse che la Knox fece il nome di Lumumba agli agenti perché “dando quel nome ‘in pasto’ a coloro che la stavano interrogando così duramente sperava di porre fine a quella pressione“. Il giudice ritiene che le parole della studentessa di Seattle abbiano rappresentato “la narrazione confusa di un sogno, sia pure macabro” e “non la descrizione di una vicenda davvero accaduta”.

Il giudice di Firenze ha anche parlato in tale ambito di indagini caratterizzate da “numerose irritualità procedurali” e dalla durata ossessiva degli interrogatori. All’avviso del tribunale il contesto nel quale sono state rese le dichiarazioni della Knox “era chiaramente caratterizzato da una condizioni psicologica divenuta” per lei “davvero un peso insopportabile”. E’ quindi “comprensibile” – si legge nelle motivazioni – che “cedendo alla pressione e alla stanchezza abbia sperato di mettere fine a quella situazione, dando a coloro che la stavano interrogando quello che in fondo volevano sentire dire: un nome, un assassino“.

Per il giudice il racconto contenuto nel verbale di spontanee dichiarazioni della Knox e quello del memoriale scritto subito dopo appare “la narrazione confusa di un sogno, sia pure macabro, che non la descrizione di una vicenda davvero accaduta”. Per il tribunale questo “conferma lo stato in cui si trovava Amanda Knox” in quel momento ed esclude la sua finalità” potesse essere di tacere il nome dell’effettivo autore del delitto”.

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