Si può essere gioiosi, pazzamente gioiosi, anche se si vive il disagio della malattia mentale? Paolo Virzì fonda La pazza gioia – appena presentato a Cannes nella Quinzaine des réalisateurs e da oggi sugli schermi italiani – su questo interrogativo al quale non cerca di dare facili risposte, ma con il quale sostiene tutto l’impianto del film, centrato su due donne diversamente affette da disturbi mentali. Ognuna delle due donne, l’esuberante Beatrice e la più ombrosa Donatella, ha delle fragilità e dei buchi nel proprio passato, buchi che sono il motore narrativo della storia.

In modi diversi appaiono sradicate, dal tempo e dai luoghi, dai loro affetti: Donatella è in cerca della figura del padre, che non vede da anni ma che tiene segretamente presente nella sua vita nella forma di una canzone registrata sul cellulare (l’intramontabile Senza fine, che sembra una sorta di suggello del viaggio delle due donne che sembra non avere un destino). Ed è in cerca soprattutto del figlio Elia, che le è stato sottratto a causa della sua instabilità. Questa mancanza le procura un buio interiore al quale fa fatica a reagire. Per parte sua Beatrice è in conflitto con le sue radici di donna di famiglia altolocata. Anche lei ha bisogno di un po’ di luce, che le faccia ritrovare tutta l’energia che sente di avere ma che non è capace di canalizzare in modo efficace.

L’incontro tra le due, in una bella dimora della campagna toscana, adibita a comunità di recupero per donne affette da disturbi mentali, accende la loro voglia di fuggire, di correre alla ricerca di qualcosa che ridia un senso al desiderio di vivere. E’ questa in fin dei conti la loro pazza gioia, la ricerca della felicità attraverso la fuga, il tuffo nell’altrove sperando che sia più gratificante del qui e ora.  E però la felicità non è un oggetto facile da trovare: “Hai mai trovato la felicità in un tramezzino?”, chiede Beatrice a Donatella mentre corrono in macchina verso chissà dove. D’altra parte la felicità la si può trovare anche inaspettatamente, in uno scambio di sorrisi, magari sommesso.

Durante questo lungo viaggio delle due donne, che fa del film una sorta di road-movie all’italiana, i momenti drammatici si alternano a invenzioni esilaranti. E questo frequente salto di registro, che a prima vista può sembrare un’incertezza del film, è invece la traduzione sul piano narrativo dell’instabilità emotiva delle due protagoniste. Nel loro vagare attraverso la Versilia – da Viareggio a Marina di Pietrasanta, luoghi deputati della commedia italiana – le due donne mettono in atto tentativi di truffa e simulazioni che punteggiano il loro viaggio: il risultato è un racconto efficace nel restituire la forza di una ricerca senza fine. Su tutto prevale la ricca umanità di questi personaggi fragili, che traggono dalla loro inquietudine il valore aggiunto della propria vita. E l’inquietudine, come insegna Pessoa, è l’intervallo tra ciò che siamo e ciò che non siamo.

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