In questi giorni di lancio del Fatto Social Club, molti lettori – qui sul sito – hanno fatto la stessa obiezione: tutto molto bello, la comunità, i corsi di giornalismo, le aziende partner, le newsletter e così via, ma perché diavolo dovremmo pagarvi? Che cosa avete di speciale? E, soprattutto, perché dovremmo darvi dei soldi per leggere qualcosa che in gran parte abbiamo già gratis?

Ognuno di noi, in questi quasi sette anni di giornale, ha accumulato esperienze personali e professionali che aiutano a rispondere a queste domande. L’ultima mi è capitata pochi giorni fa. Una persona che si occupa di pubblicità (non per il Fatto), mi raccontava: “Pare che con voi ci sia un problema, palazzo Chigi non vede di buon occhio le aziende che comprano pagine pubblicitarie sul vostro quotidiano e non manca di farglielo sapere”. Tali malumori sono ovviamente rilevanti soprattutto per i gruppi di cui il governo è l’azionista di riferimento.

Prima di fare il vicedirettore, per oltre cinque anni ho avuto il coordinamento dell’Economia, qui al Fatto. All’inizio ero da solo in redazione, in quegli uffici di via Orazio che ho visto vuoti nei primissimi giorni del settembre 2009 (Antonio Padellaro ne parla a lungo nel suo nuovo libro, “Il Fatto Personale”, edito dal marchio del Fatto Paper First), con Francesco Bonazzi che lavorava sulle inchieste. Poi, negli anni, il settore economico si è strutturato diventando uno dei punti di forza del giornale. E questo è successo per dinamiche che, a quanto mi risulta, ci sono soltanto al Fatto.

Faccio un esempio. Nei giornali normali funziona così: se il redattore scrive un pezzo che fa infuriare qualcuno (la politica non ha più molto potere di influenza, le aziende sì), il capo delle relazioni esterne di un grande gruppo alza il telefono e chiama il direttore per lamentarsi. Sa che – di solito – il direttore recepisce il messaggio e raccomanda con autorità monarchica al redattore di darsi una regolata. Quando la situazione è davvero grave, il capo delle relazioni istituzionali organizza un incontro tra il suo amministratore delegato e il direttore del giornale, spesso convocato direttamente nella sede aziendale o invaso nel suo ufficio (così che tutti al giornale sappiano delle avvenute lamentele).

Fin da quando avevo 25 anni e iniziavo a districarmi nel capitalismo di relazione, qui al Fatto è andata diversamente. Di lamentele ne sono arrivate tante (le inchieste di Vittorio Malagutti, oggi all’Espresso, e di Giorgio Meletti, in particolare, hanno causato più di un dispiacere a mezzo capitalismo italiano). Molti amministratori delegati, presidenti, grandi burocrati pubblici hanno chiesto di incontrare il direttore. Antonio Padellaro li riceveva tutti, ma quando questi top manager abituati a comprare giornali e giornalisti arrivavano, scoprivano che Padellaro aveva invitato anche me all’incontro. Messaggio esplicito: il direttore si prende la responsabilità ti tutto quello che esce sul suo giornale e non ha niente da nascondere nei suoi rapporti con il potere. Non tutti reagivano bene.

Un famoso banchiere, non piccolo di statura, è arrivato a sbottare: “Voi avete messo in dubbio la mia onestà e chi mette in dubbio la mio onestà io di solito lo prendo a cazzotti”.
Dopo i primi anni, anche i “poteri forti” hanno capito la logica del Fatto. E hanno iniziato a chiedere incontri soprattutto quando avevano qualche problema con la giustizia e speravano – sopravvalutandoci – che noi potessimo intercedere per loro presso qualche Procura, magari allontanando i timori di un arresto imminente. Per il resto hanno accettato quello che è il Fatto: un giornale che non riescono a controllare, possono far filtrare notizie sui loro concorrenti, darci informazioni corrette, suggerirci piste da seguire, ma è inutile protestare troppo quando finiscono nel mirino.

In questi sei anni ho visto la mutazione del Fatto: da giornale a cui una volta l’establishment riteneva disdicevole anche rispondere al telefono, a lettura imprescindibile per quell’area tra politica e affari che muove gran parte del Pil italiano. Un giornale mai amato, ma spesso rispettato, qualche volta anche temuto. Questa è stata la mia esperienza. Siamo più bravi degli altri? Qualche volta sì, qualche volta no. Ma l’assetto proprietario e la “cultura aziendale” del Fatto Quotidiano hanno creato un contesto unico nella stampa italiana. Noi non scriviamo di aziende che ci pagano lo stipendio, o perché sono azionisti o perché con le loro inserzioni pubblicitarie evitano il fallimento del giornale, non dobbiamo compiacere nessuna banca creditrice perché non abbiamo debiti, dalla politica siamo stati lontani fin dal primo giorno rifiutando i finanziamenti pubblici.

Questa unicità è un patrimonio di noi che al Fatto ci lavoriamo, ovviamente, di voi che lo leggete e anche di quelli che non l’hanno mai letto ma beneficiano della sua esistenza in quanto cittadini di un Paese dove c’è un almeno un giornale disposto a pubblicare qualsiasi notizia (e chi ha vissuto certi anni bui del berlusconismo sa che questo non è scontato). Con Il Fatto Social Club noi non vi stiamo chiedendo soltanto di abbonarvi, ma di diventare parte di quella che fin dall’inizio è stata un’avventura collettiva. Il vostro sostegno è la nostra forza e l’unica vera garanzia di poter avere un’informazione libera e affidabile. Nell’interesse di tutti.

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