“Al mattino mi alzo alle sette, e poi chiamo il ragazzo che va a lavorare, e poi preparo la colazione, e poi chiamo il bambino per andare a scuola, lo preparo, poi dopo vado a fare i letti…e poi mi metto a lavorare un po’ a macchina. Lavoro per due o tre ore. E poi, quando sono le undici, mi devo alzare per far da mangiare, fare la spesa […] e faccio da mangiare, e poi arrivano questi uomini: ‘ma è pronto, non è pronto?’. Qui, su, via, si corre. Sempre così, un traffico. Poi, mentre mangio sto sempre in piedi, perché uno vuole il sale, l’altro vuole l’aceto, quell’altro vuole bere. Sempre un movimento, mentre si digerisce. E poi, quando ho fatto le faccende, mi metto a lavorare ancora. Lavoro fino alle sei di sera. Loro arrivano alle sette. Mi alzo e preparo la cena…e poi ho anche il bambino che ha il compito e lì non ci si prende mai con i maestri, perché gli danno il compito […] Poi alle otto sono lì che lavoro ancora fino alle undici di sera e poi vado a dormire. Sono sedici ore tutti i giorni a casa mia, e come a casa mia penso siano tutte le case […] E’ così, è la vita della lavorante a domicilio”.

cop.toffanin[1]Le parole, pronunciate da una donna carpigiana negli anni ’70, lavorante a domicilio, sono registrate in un film documentario, mai ultimato, di Bernardo e Giuseppe Bertolucci, che ora è custodito nell’archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico. Sono parole che denunciano, con una semplicità disarmante, l’ipersfruttamento di migliaia di donne, costrette a lavorare anche sedici ore al giorno, logorandosi tra lavoro produttivo e riproduttivo. E che, magari, – secondo il senso comune più diffuso – avrebbero dovuto anche considerarsi fortunate, perché non costrette a lavorare in fabbrica. Come se costruire una fabbrica tra il bagno e la cucina, tra la lavatrice e l’aspirapolvere, possa considerarsi una vacanza alle Maldive.

Se si pensa che la testimonianza della donna carpigiana appartenga al passato, all’era protoindustriale, si commette un grave errore. La realtà fattuale ci dimostra esattamente il contrario. Nel mondo, cresce da decenni, e in modo esponenziale, il numero dei lavoratori a domicilio: secondo le stime internazionali, nel 2004 erano 300 milioni, gran parte dei quali donne. In Italia, i dati Istat del 2014 ci parlano di 4.164 lavoratori a domicilio, dei quali 3.611 sono donne. Si tratta, in ogni caso, di statistiche fortemente inattendibili, in quanto non in grado di rilevare i numeri reali: il lavoro irregolare (sostenuto dall’invisibilità della fabbrica-in-casa) dilaga come uno tsunami in questo segmento del mercato del lavoro, sia a livello mondiale che nazionale. Sfuggono i numeri, scompaiono le storie, cala il silenzio. Tacciono studiosi e istituzioni.

Ma non il bel libro di Tania Toffanin, Fabbriche invisibili. Storie di donne, lavoranti a domicilio, che, con competenza ed eleganza, ci spalanca le porte di questo sconosciuto universo di fatica femminile. Poiché, come sostiene l’autrice, a determinare l’invisibilità della forza-lavoro a domicilio “è stato senza dubbio il genere di appartenenza”. Si tratta, infatti, – afferma Toffanin – “di donne con scarsa qualifica professionale e basso livello di scolarità, in condizione di limitata autonomia, per la dipendenza da carichi di lavoro di cura o perché affette da patologie croniche, che non hanno risorse familiari alle quali attingere e che, nonostante le difficoltà presenti, devono contribuire al bilancio familiare”. Di conseguenza, “la loro debole posizione nel sistema occupazionale e la mancanza di sostegni dalle istituzioni hanno, di fatto, aumentato la loro vulnerabilità e, parimenti, la piena subalternità alle condizioni imposte dalle imprese committenti” (p. 209). Con profondità storica, sguardo globale e l’utilizzo raffinato degli strumenti dell’analisi sociologica, Tania Toffanin interroga e spiega lo stretto rapporto di funzionalità tra il lavoro a domicilio e lo sviluppo capitalistico, intrecciandolo con l’analisi (brillante ed efficace) del rapporto tra il lavoro a domicilio e il lavoro riproduttivo.

Distruggendo senza pietà gli stereotipi diffusi, anche quelli presenti nel dibattito scientifico, il libro ci introduce in milioni di case-fabbriche invisibili, in Italia, negli Stati Uniti, in Europa, e altrove, laddove si producono le merci più disparate (anche quelle tanto utili ai settori più avanzati della robotica, a dimostrazione del fatto che anche le più avanzate tecnologie incorporano pur sempre lavoro sfruttato o sottopagato): cinghie di trasmissione, componenti di quadri elettrici, armi, giocattoli, calzature, capi d’abbigliamento, ecc. Toffanin ci fa incontrare anche decine di lavoratrici a domicilio del nord est italiano, ovvero quel territorio che un tempo era il fior all’occhiello del modello capitalistico italiano (“piccolo è bello”) e che ora vive una profonda crisi, e ci fa scoprire, con amarezza, che le storie di ipersfruttamento delle lavoratrici a domicilio di oggi assomigliano maledettamente a quelle di decenni e, forse, secoli fa: “A domicilio non sei mai pagata abbastanza. Con la scusa che ero a casa lavoravo sempre in modo spezzettato così stavo fino a mezzanotte per recuperare. Mi svegliavo alle sette di mattina. Alle otto i figli andavano a scuola. Di mattina lavoravo due ore e di pomeriggio, dalle due fino alle sei, poi preparavo la cena e dopo cena, dalle nove fino a mezzanotte o l’una. Le interruzioni erano tante e variabili” (p. 187).

 

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