Chi segue ormai da tempo il nostro blog, sa bene quanto teniamo alla creatività, al suo significato originario, alla sua scoperta ed alla sua valorizzazione; e potete immaginare quanto ci si accapponi la pelle quando un termine così nobile viene mistificato e stravolto, reso impropriamente sinonimo di “bizzarria”, “inaffidabilità”, “velleità”, “capriccio”, “nicchia” o, addirittura, utilizzato per esprimere truffa e malafede (ricordate la locuzione “finanza creativa”, coniata per definire uno dei fenomeni più aberranti e deleteri della nostra economia contemporanea?).

Per fortuna, però, la generazione definita dei millennials (ovvero dei nati tra i primi anni ’80 ed il 2000, conosciuta anche come generazione “Y”, “Globale”, “Di Rete” e considerata negli Usa quella con il più alto grado di educazione culturale e tecnologico di sempre), pare aver cominciato a riattribuire alla Creatività il significato ed il valore che le sono propri: e cioè non di frivola e fugace stravaganza pseudo-artistoidesca, bensì di una forma mentis che percepisce e riconosce i problemi come opportunità di sviluppo e che, per gli stessi, è in grado di immaginare, realizzare ed attuare risoluzioni inedite ed efficaci, attraverso un processo condiviso e partecipato di previsione delle conseguenze a medio/lungo termine. Non un capriccio, insomma, nè una specie di “super-potere” per pochi incredibili talenti, bensì una capacità cognitiva ed operativa alla portata di chiunque venga supportato da un habitat ragionevolmente libero, stimolante, permissivo ed inclusivo.

Esiste questo habitat? La risposta è sì. Nel 2001, il professore dell’Università di Lincoln ed autore britannico John Howkins pubblicò il libro “The Creative Economy” in cui definì l’Economia Creativa come “Il primo tipo di economia dove immaginazione e ingegno determinano ciò che le persone vogliono fare e produrre. E – prosegue – ciò che vogliono acquistare”. Con quel libro e le riflessioni contenute, Howkins popolarizzò il concetto di economia creativa ed esplicitò quelli che considerava i tre principi cardine affinché essa potesse prosperare: il primo afferma che qualsiasi essere umano nasce creativo, è in grado di immaginare ed ha il desiderio di mettere a frutto la propria immaginazione; il secondo, secondo cui per poter essere espressa all’interno della società, la creatività ha bisogno di un grado sufficiente di libertà; il terzo, secondo cui le persone creative, oltre a veder riconosciuta la propria creatività e a poterla esprimere, devono avere accesso ad un mercato aperto, inclusivo, onesto, trasparente ed efficiente. Il dibattito si diffuse tra numerosi educatori, studiosi, economisti ed amministratori pubblici – soprattutto in America, Regno Unito, Giappone e Cina – i quali si trovarono concordi nel ritenere che la creatività stesse assumendo nei confronti dei nuovi sistemi economici del terzo millennio lo stesso ruolo che il manifatturato e la meccanica avevano svolto per le economie fino al concludersi del secondo: ovvero, di competenza e requisito primo e sommo per essere lavoratori utili alla collettività, in grado di contribuire allo sviluppo della nuova società globale iperattiva, ipertecnologica, iperconnessa ed in continua trasformazione.

Da allora, governi di tutto il mondo si sono sforzati nell’intento di comprendere le ricadute sociali, culturali, produttive ed occupazionali dell’economia creativa e le caratteristiche di quegli insiemi di risorse umane (soprattutto appartenenti alla generazione dei Millennials) che, in scala sempre più diffusa e nel solco delle emergenti economie della condivisione e della conoscenza, hanno incominciato ad interagire economicamente attraverso transazioni in prevalenza non finanziarie, bensì di mutuo scambio di ingegno e di competenze, e che al valore del capitale hanno via via sostituito il valore della capacità (o proprietà) intellettuale. Habitat (o “hubs”) creativi sono sorti in tutto il mondo con l’intento di trasformare un’economia informale, ancora in fase di genesi e di conformazione, in modello di sviluppo compiuto e sostenibile: come il polo collaborativo “The Creative Exchange”, fondato dal Consiglio di Arts & Umanities Research di Swindow e che coinvolge le Università di Lancaster, di Newcastle e la Royal College of Art nel Regno Unito; la Commissione “Mississippi Arts” di Jackson negli Stati Uniti; la “Shanghai School of Creativity” in Cina; e molteplici altri che considerano le idee come una vera e propria moneta di traffico ed in cui le transazioni avvengono tramite l’interscambio creativo dell’ingegno di ogni risorsa individuale o di gruppo, in qualsiasi ambito di applicazione disciplinare (che si tratti di umanistica, di scienza, così come di arti o di mestieri).

Vediamo come funziona: lo scambio riguarda idee che, per natura, sono astrazioni immaginarie, e che chiunque può suggerire (tanto studenti-bambini quanto studenti-adulti; tanto professionisti alle prime armi quanto imprenditori esperti); per diventare Economia, le idee devono dunque passare attraverso una fase di concretizzazione, di prototipazione, di test e di raffinazione; una volta pronte e rese servizi o prodotti reali, vengono quindi offerte al mercato di riferimento, locale e globale. L’intero processo, dall’ideazione alla vendita, avviene attraverso processi inclusivi di collaborazione, che possono prodursi in ambienti fisici ed anche essere facilitati attraverso il web. I lavoratori creativi (non solo designers, video-makers, musicisti, ma di qualsiasi categoria, tra cui programmatori, architetti, ingegneri, pubblicitari, professori e artigiani) guadagnano una volta ricavati gli utili dal mercato e proporzionalmente al contributo creativo offerto da ognuno mentre, durante il processo creativo di sviluppo, vengono sostenuti dagli habitat o hubs di interscambio creativo. In Europa, una recente indagine ha calcolato il contributo che le attività creative offrono all’economia dell’Unione, stimandolo 500 miliardi di Euro (pari al 3% del Pil europeo) per un totale di 6 milioni di impieghi. E siamo solo all’inizio di un percorso che influenzerà l’economia globale per i prossimi decenni.

E in Italia? Sono evidenti le spinte e sempre più numerose le realtà private e pubbliche che sostengono, credono ed operano per favorire la Creatività nel solco della collaborazione, utilizzando la rete come facilitatore comunicativo e operativo e i Fab Lab, gli incubatori e gli spazi di co-working come aggregatori di incontri e di interscambi fisici. Ma una vera e propria discussione attenta sul tema non si è ancora aperta, né diffusa a tutti gli strati di società; il che ci può portare al rischio di mantenere una considerazione vaga e approssimata sul significato di Creatività e sui vantaggi che derivano da una sua adeguata valorizzazione in ogni individuo ed in ogni settore produttivo. Accorgerci dei benefici dell’Economia Creativa in gran ritardo rispetto ad altre parti del mondo potrebbe tradursi in una grave incapacità a preparare l’habitat di sostegno nel modo più opportuno, che sia in grado di comprendere come includere in maniera collaborativa piuttosto che escludere in maniera competitiva l’intera generazione dei Millennials, garantendo loro nonché alle leve future – già definite “Generazione Z” – il sostegno necessario per uscire dalla Grande recessione.

Nel 2014, l’Organizzazione Internazionale per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha dichiarato che “la Creatività e l’Innovazione stanno guidando la nuova economia, rimodellando intere industrie e stimolando la crescita inclusiva”: siamo pronti ad entrare in una nuova era di relazioni e di sviluppo?

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