È tornata Gomorra, la serie che conquistato il mondo targata Sky e Fandango. È tornata con una seconda stagione che si preannuncia una sorta di Armageddon in salsa camorrista che terrà col fiato sospeso i tanti fan della serie. Atmosfere ancora più cupe rispetto alla prima stagione, personaggi ancora più spietati, una violenza che permea di sé l’intera narrazione.  Con un’attesa forse mai vista per un prodotto seriale italiano, Gomorra chiude il racconto della famiglia Savastano per aprire un capitolo nuovo, dove accanto a don Pietro e a Genny si fanno largo i personaggi di Ciro e Salvatore Conte, ora alleati per resistere alla reazione rabbiosa dell’ancien regime, messo in ginocchio alla fine della prima stagione. C’è un alto tasso di ferocia, in questa nuova Gomorra, perché ancora una volta la serie prende spunto da fatti realmente accaduti (precisamente le faide del 2012) e sceneggiatori, attori e registi riescono di nuovo a tracciare un quadro sin troppo realistico delle dinamiche criminali. La lotta per il potere diventa senza esclusione di colpi, e una volta tanto non è solo un modo di dire. Per difendere il potere conquistato da poco (o per recuperare il terreno perduto), i protagonisti sono disposti a tutto, più di prima, peggio di prima.

È un racconto umanissimo di quanto ci si possa spingere oltre una volta che si diventa ingranaggi di una macchina letale. Se siete ancora alla ricerca dei buoni, degli eroi positivi per cui fare il tifo, avete decisamente sbagliato serie ed evidentemente non avete seguito la prima stagione. Ecco il punto fondamentale del successo di Gomorra: i buoni non ci sono, semplicemente perché nei gruppi criminali i buoni non ci sono. È tutto talmente così cupo, colpevole e crudele, che persino le vittime sono figure negative. È la legge della giungla di Gomorra, una giungla fatta solo di predatori che si azzannano tra loro per il dominio su un deserto sociale e umano sterile e desolato. Sullo sfondo, le meravigliose e degradate ambientazioni urbane che conferiscono al prodotto televisivo un tratto modernissimo. Dinamiche sociali arcaiche che si dipanano in un mondo contemporaneo, innescando un corto circuito di violenza che allo stesso tempo turba e affascina lo spettatore.

Con le attese alle stelle, il rischio di deludere le aspettative e di fare un passo indietro rispetto all’anno scorso era dietro l’angolo. Ma Sky e Fandango, almeno a guardare i primi due episodi, sono addirittura riuscite ad alzare il livello, anzi il tiro, puntando al bersaglio grossissimo del boom internazionale. Così come il film di Garrone, anche la serie riesce a imporsi sul mercato internazionale nonostante l’utilizzo quasi totalizzante della lingua napoletana. E ci riesce perché c’è un linguaggio ancora più potente della parola, a narrare le sanguinose cronache di Gomorra: il linguaggio non verbale delle organizzazioni criminali, il suono delle armi che è più eloquente di quello della lingua, gli sguardi di ghiaccio che celano assoluta mancanza di umanità.

Gomorra è il racconto di una parte d’Italia che esiste sul serio e che ancora permea di sé interi strati della popolazione e del territorio nazionale. Ecco perché qualcuno ancora si ostina a criticare questo capolavoro della serialità italiana: perché molti preferiscono ancora mettere la testa sotto la sabbia, negando l’evidenza e fingendo che tutto vada alla perfezione, secondo la nuova narrazione ultraottimistica e rampante dell’Italia di oggi. Gomorra, oltre a deliziare gli appassionati di serie tv, serve anche a questo: a svuotare addosso alle nostre tranquillizzanti ma illusorie certezze interi caricatori di kalashnikov. Una scarica di sangue, morte e crudeltà che servono a svegliarci dal torpore e, nel frattempo, a godere delle meraviglie di un prodotto di qualità mai vista dalle nostre parti.

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