Rob Wainwright è il direttore dell’Europol, l’agenzia europea di polizia il cui compito è la lotta contro il crimine, il quale qualche giorno fa ha dichiarato: “La minaccia terroristica in Europa è ancora di alto livello, la più grave dai tempi dell’11 settembre e temo sia possibile un nuovo attacco in Europa in futuro”. Ora, questa è una preoccupazione che ho espresso più volte in altri post partendo dalla constatazione che non bastano le vittorie militari per considerare sconfitta la logica dell’Isis. Che fine faranno le migliaia di uomini che si sono recati in Siria a combattere a fianco del califfato e che saranno risparmiati dalla guerra? Il loro sentimento di vendetta diventerà tutt’uno con la missione che cercheranno di portare avanti: colpire, colpire la civiltà dei crociati, come spesso usano esprimersi.

Certamente occorrerà un’azione di prevenzione e di repressione poliziesca, ma non mi posso addentrare in questi meccanismi, che solo gli esperti conoscono bene. Certamente occorrerà un coordinamento europeo, e forse internazionale, delle polizie per poter incrociare i dati che ognuno dispone. Ma una volta fatto tutto questo, e a condizione che lo si faccia, rimane da affrontare il problema più arduo: i mezzi che lo Stato mette in campo per una politica di de-radicalizzazione. A questo proposito non mi riferisco a mezzi materiali, necessari, ma all’elaborazione di una metodologia di intervento. E’ un settore difficile e quindi procederemo per approssimazioni successive, man mano che le idee diventeranno più chiare. Innanzi tutto possiamo dire che, per un’azione effettiva, occorre stabilire delle alleanze. Non basta l’azione, più che necessaria, della polizia, ma occorre una complicità esplicita di intenti nel lavoro di de-radicalizzazione con gli ambienti musulmani in generale, con le moschee, con i centri culturali e con l’associazionismo islamico. Iniziative che si radichino nei territori e che siano capaci di rispondere al profondo malessere che spesso causa scelte di vita sbagliate.

Non mi riferisco solo al malessere sociale degli emarginati, a quei giovani che vivono nelle periferie senza futuro, e che vedono nell’impegno religioso una possibilità di riscatto e la realizzazione di una vita sino ad allora vuota ed inutile. Un esempio di questo genere di terroristi potrebbero essere i fratelli Kouachi, gli attentatori alla rivista satirica francese Charlie Hebdo o ancora Amedy Coulibaly, l’attentatore dell’ipermercato kosher di Parigi. Solo esempi, a dimostrazione del fatto che non esistono preventivamente figure sociali che abbiano un destino segnato. La banda di Molenbeek rappresenta un altro caso. Novembre 2015, Abdelhamid Abaaoud è stato identificato come uno degli organizzatori degli attentati di Parigi e, come ricorderete, ucciso a Saint Denis. Era partito per la Siria qualche anno prima dove aveva propagandato il suo nuovo status di combattente, immortalandosi in un video mentre gioca a pallone con la testa di un uomo sgozzato dall’Isis e trascina dei cadaveri legati con una corda ad una macchina, e che allo stesso tempo magnificava la vita nella Siria del califfato dove si può mangiare anche la nutella.

Ma chi era Abdelhamid? Era figlio di Omar Abaaoud, commerciante d’abbigliamento, giunto dal Marocco per lavorare nelle miniere, il quale a forza di sacrifici era riuscito a costruirsi una posizione agiata e due negozi, uno dei quali era gestito da figlio maggiore, Abdelhamid. Cosa gli mancava a questo giovane, morto ammazzato all’età di 28 anni? E’ difficile dirlo, come difficile credere che trascinare dei cadaveri dietro la macchina potesse soddisfare un comandamento dell’Islam. Gli interrogativi restano senza risposta. Anche a Saint Denis moriva Chakib Akrouh, un ragazzo che amava lo sport, timido e un po’ introverso, un ragazzo normale, così come lo descrivono i suoi vicini. Era partito per la Siria dove si era sposato ed era tornato per compiere la sua missione di morte. Ancora un caso che lascia aperti molti interrogativi e dimostra come sia difficile identificare un unico percorso di radicalizzazione e che l’azione di prevenzione affidata alle scuole, alle università a tutti i luoghi della parola resta, senza farsi molte illusioni, sia una delle possibilità di un percorso di de-radicalizzazione.

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