Il consentire a tutti il diritto di esprimere il proprio voto è alla base di una società dove chiunque, in quanto residente, è considerato membro di una comunità, e quindi esercente di un diritto-dovere inalienabile: quello di contribuirvi, in ogni sua forma. Che tu sia inglese o un immigrato. Che tu sia residente da vent’anni, da tre, o anche da qualche mese.

Dunque la vittoria come sindaco di Londra di Sadiq Khan, il primo sindaco musulmano della storia della City, prima di rappresentare la concretizzazione di un sogno per i filo-europeisti (nonostante fosse quasi una vittoria annunciata) ed una minaccia per i ferventi conservatori ed i simpatizzanti della Brexit, è lo specchio di una realtà la cui bocca parla almeno milioni di lingue differenti, sebbene ne utilizzi una sola per comunicare, la cui pelle va dal bianco al nero ma in mezzo esistono milioni di sfumature e la cui identità non resta circoscritta ad uno stereotipo, ma ve ne esistono infiniti che però riusciranno a confluire in un unico concetto: quello della multiculturalità.

Sadiq Khan non è l’allenatore di una squadra di calcio che inizia un campionato lottando per la salvezza e lo termina da vincitore innalzandone la coppa.

È figlio di immigrati pakistani vissuti a Tooting, di un conducente di autobus e di una sarta, fratello di altri sette. Vissuto in una famiglia poverissima ed avendo avuto la facoltà di conseguire una laurea in legge nonostante tutto, lo rende indubbiamente molto più “simpatico” del suo antagonista principale, Zac Goldsmith, discendente dell’illustre famiglia ebraica tedesca ed ex studente di Eton e Cambridge come nella migliore tradizione dell’élite politica conservatrice.

È una storia in cui forse più della metà della popolazione londinese si è rivista, o forse no. Ma è sicuramente parte di quei più di quei tre milioni di cittadini di fede musulmana soltanto nella capitale, oggi la seconda religione maggiormente professata.

È colui che ha messo al centro del suo programma la questione delle “council houses”, ossia le cosiddette case popolari, perché lui ci ha passato gran parte della sua vita.

È colui che ha ammesso l’attuale crisi immobiliare della capitale britannica, vagliando alternative per far sì che un cittadino medio che intenda prendere una casa in affitto versi in media non più di un terzo del proprio salario.

È colui che nel 2013, dopo aver votato a favore delle unioni tra omosessuali, ha ricevuto minacce di morte.

È dunque forse la vittoria di una persona, più che del partito laburista, che invece in altre zone, come la Scozia, si colloca solo terzo dopo il partito indipendentista scozzese e quello conservatore, alimentando l’idea che se al suo posto vi fosse stato un diverso candidato, oggi avremmo raccontato un’altra storia.

Ed è per questo che la Londra multiculturale che premia un avvocato musulmano proveniente da una famiglia povera, non è l’intero Paese. La sua ascesa politica non significa eliminare definitivamente l’ipotesi di una eventuale uscita dall’Unione.

Ma quello che conta, in fondo, non è soltanto chi ha vinto. Perché quello che rappresenta è il risultato di un’interpretazione soggettiva: un sostenitore dello Stato Islamico così come è stato additato da qualche fervente conservatore, o come la possibilità di instaurare un dialogo con una porzione cospicua della società nel momento storico più delicato. Quello che conta è anche a come si sia giunti ad un risultato simile.

Gli elettori nella loro interezza chiamati alle urne allestite nelle chiese di ogni circoscrizione, perché le scuole non si chiudono per due giorni in vista delle elezioni. Non tenuti a mostrare alcun documento di riconoscimento, perché basta dare il proprio nominativo, e se alla terza non capiscono nemmeno te che fai lo spelling, giri la lista verso di te, ti fai dare la pena che impugnano, e cancelli il tuo nome e cognome. Il tutto nella totale assenza di pattuglie di forze dell’ordine a presidiare. Poi cosa? La manifestazione del diritto al voto? La libertà di scelta e quindi d’espressione?

Non che il tweet di Gasparri che invoca la salvezza dell’Europa additando come pessima la notizia dell’ascesa di un sindaco musulmano o i titoloni di qualche giornale nostrano che parlano di shock contino a qualcosa, però forse questo lo dovrebbero sapere dato che nessuno ne parla. Che a volte non è solo chi vince, ma anche come si arriva al traguardo. Ed è quest’ultimo, il più delle volte, che sancisce se quello che verrà possa determinare una minaccia o lo specchio di una società degna di essere rappresentata così com’è, il risultato di una libera scelta di tutti, un segno d’intelligenza atto a superare i pregiudizi.

di Antonia Di Lorenzo. Autrice del romanzo Quando torni? disponibile in Amazon, Itunes, Kobe, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble, Lulu.com e su quest’ultimo anche in versione cartacea. Scrive di Londra anche qui, sul suo blog personale ed in inglese sulla rivista The IT Factor Magazine.

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