Sembrava una riforma come le altre, semplice, rapida e indolore, di breve e facile attuazione. Ma siccome in Sicilia può sempre accadere tutto e il suo contrario, ecco che l’abolizione delle province sull’isola è diventata una vera via crucis. Autore di una legge che trasformava gli enti intermedi in liberi consorzi tra comuni, il governatore Rosario Crocetta si è dovuto arrendere prima all’Assemblea regionale siciliana, che a colpi di voto segreto ha affossato la riforma, e poi a Palazzo Chigi, che nell’autunno scorso l’ha impugnata. A quel punto, con 180 milioni di euro di debiti che pesano sulle casse delle ex province mai trasformate definitivamente in liberi consorzi, il Parlamento regionale siciliano ha deciso d’imboccare la via più breve: cestinare la norma Crocetta e recepire la legge varata dal ministro Graziano Delrio nel resto d’Italia. Tutto risolto dunque? Ma neanche per idea. Perché in Sicilia non è possibile nemmeno copiare una norma nazionale, senza finire impantanati in qualche clamoroso paradosso.

Ecco dunque che alla fine di marzo l’Ars varava una forma riveduta e corretta della legge Delrio: mentre nel resto d’Italia i sindaci delle città capoluogo sono indicati come sindaci delle aree metropolitane, in Sicilia quell’automatismo veniva clamorosamente cancellato. Il motivo? Una sorta di sgarbo nei confronti di Leoluca Orlando ed Enzo Bianco, entrambi possibili pretendenti alla poltrona di governatore per il dopo Crocetta: i primi cittadini di Palermo e Catania, quindi, per diventare sindaci delle rispettive aree metropolitane avrebbero dovuto misurarsi con i colleghi dei minuscoli comuni limitrofi. E siccome le elezioni sono state fissate per la fine del 2016, ecco che la situazione è immediatamente precipitata. La settimana scorsa, alla vigilia della visita siciliana di Matteo Renzi, Palazzo Chigi aveva dato l’allerta: come fa il premier a firmare con Bianco e Orlando accordi milionari per le aree metropolitane di Catania e Palermo, se ufficialmente i due primi cittadini rappresentano solo i rispettivi comuni? Non avrebbe potuto, se qualcuno non avesse alla fine messo una pezza sull’imbarazzante pasticcio: i due sindaci, infatti, hanno firmato l’accordo con Renzi in qualità di “autorità urbane”. E visto che nel frattempo il governo centrale è tornato a minacciare una nuova impugnativa della riforma, l’Ars ha deciso di fare marcia indietro: abbiamo scherzato, recepiamo interamente la legge Delrio.

“Il Pd aveva presentato un emendamento che prevedeva la coincidenza fra sindaco del capoluogo e sindaco metropolitano, ma quella proposta è stata bocciata con voto segreto: per quel che ci riguarda la nostra posizione resta immutata. Adesso, anche alla luce delle osservazioni del governo nazionale, crediamo che l’aula debba esprimersi in maniera definitiva ed alla luce del sole: ognuno si assuma la propria responsabilità”, annuncia in pompa magna Alice Anselmo, capogruppo dei dem all’Ars. Tradotto: è solo Crocetta ad opporsi all’automatismo tra sindaco del capoluogo e sindaco metropolitano, non certo il Pd, che sarebbe poi il maggiore partito di governo. Grazie ad un emendamento inserito nello stralcio della legge finanziaria appena approdata all’Ars (la cui discussione é stata, però, rinviata a martedì dopo l’ennesimo rinvio dovuto al rischio sempre attuale dei franchi tiratori), la Sicilia dovrebbe dunque riuscire ad uccidere finalmente le sue province: e pazienza se per copiare una norma nazionale siano dovuti trascorrere più di tre anni. Era il marzo del 2013 quando Crocetta annunciava fiero ai microfoni di Massimo Giletti: “Saremo i primi ad abolire le province”. Una profezia al contrario: e infatti, oggi, la Sicilia è praticamente l’ultima regione a cancellare i tanto odiati enti intermedi.

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