Ogni giorno di più il referendum costituzionale impugnato da Matteo Renzi come arma letale per la resa dei conti definitiva contro “gufi” e “piagnoni” che dicono no a tutto diventa ostaggio della partita in corso almeno dai tempi di Tangentopoli sul cosiddetto “primato della politica” minacciato dai magistrati “che escono dal recinto”. L’ultima pecora nera additata alla pubblica riprovazione e sotto la lente di ingrandimento del ministro della Giustizia Orlando, titolare dell’azione disciplinare, è Piergiorgio Morosini attualmente membro togato del Csm, già gup a Palermo, che si è occupato tra l’altro del processo sulla trattativa Stato-Mafia ed è da sempre magistrato cauto nell’usare le parole e molto severo, a mio parere anche eccessivamente, nei confronti dei colleghi accusati di “sovraesposizione” e di “protagonismo“.

Ora sul banco degli imputati, invece dei colleghi messi in croce sulle prime pagine a causa delle inchieste su vip o politici, c’è lui e il Guardasigilli ha precisato in vista dell’incontro “chiarificatore” con il vicepresidente Legnini che il problema non è la libertà di espressione del magistrato, ma ha assunto un profilo istituzionale in quanto riguarda il rapporto con un organo fondamentale come il Csm. L’oggetto “del caso” sono le valutazioni espresse abbastanza incredibilmente da un magistrato avveduto ad una testata come Il Foglio, che pochi giorni fa aveva celebrato esultante Renzi come “fustigatore unico del giustizialismo“, riguardo al contenuto della riforma, ai pericoli in senso autoritario già denunciati da molti autorevoli costituzionalisti e alla necessità, smentita dall’interessato di “fermare Renzi”. Superfluo sottolineare che la testata di Cerasa ha ritenuto bene di titolare quella che non era nemmeno un’intervista con uno squillante “Perché Renzi va fermato” a caratteri rossi e cubitali.

Ma al di là delle peculiarità del “caso Morosini” la questione fondamentale sottostante, come ha evidenziato con assoluta chiarezza e coerenza Armando Spataro, già impegnato in prima persona per la campagna sul referendum confermativo nel 2006, è se sia solo pensabile che un magistrato non debba esprimersi e prendere posizione su una riforma che modifica in modo sostanziale la costituzione e che si salda ad una legge elettorale come l’Italicum. L’obiezione all’impegno da parte di un magistrato per sostenere il no starebbe secondo il vicepresidente del Csm Legnini nel divieto deontologico di partecipazione a “campagne politiche“: come se una modifica così rilevante della Costituzione combinata con la legge elettorale e alle ricadute dirette sulla composizione dei massimi organi di garanzia e autogoverno, e cioè Corte Costituzionale e Csm, potesse essere assimilata ad una qualsiasi campagna elettorale.

E di questo significato, ma in senso plebiscitario sulla sua persona, l’ha voluta caricare il presidente del Consiglio, facendo addirittura dei comitati per il Sì la fucina a livello territoriale del Partito della nazione con il contributo insostituibile dei verdiniani. Così “magicamente”, caricando il referendum di una valenza politico-partitica del tutto impropria e pericolosa risulta molto più facile anche cercare di escludere le voci competenti ed autorevoli di operatori del diritto di straordinaria capacità ed esperienza. Sembra per Renzi e per tutti i fautori di una magistratura afona, ai margini o esclusa dalla scena pubblica come se fossimo tornati indietro di un paio di secoli, l’occasione buona, anzi ottima, per silenziarla in via definitiva e per espropriare dei cittadini pienamente consapevoli degli effetti della riforma del diritto-dovere di prendere posizione riguardo la legge fondante dello Stato.

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