BOLZANO – Il momento è pulsante, in continua evoluzione: i migranti che spingono al Brennero, le appena trascorse rievocazioni per i cento anni della Prima Guerra Mondiale e roba di questi ultimi giorni, il Tirolo avanza nuovamente pretese di riunificazione, accorpando la regione di Innsbruck con quella dove sorgono Merano, Bressanone e Bolzano. Qui, la convivenza tra Italiani e Tedeschi è rimasta su un binario di inimicizia e separazione da una parte, e rassegnazione dall’altra, con un’integrazione che ha sempre fatto fatica a trovare una via comune. Ancora oggi, attraversato il ponte che dal centro storico porta al quartiere italiano che fu inaugurato dal regime fascista, il clima che si percepisce è differente e il grande arco in marmo bianco sta lì in guardia, in bella mostra fiero a guardare le Alpi. Una tensione mascherata dalla borghesità (Bolzano ogni anno si aggiudica la palma di città italiana dove è più costoso vivere), un’elettricità tra queste due etnie che paradossalmente oggi sta scomparendo, compattandosi per far fronte all’arrivo di nuove culture, arabi e africani, che hanno fatto idealmente da collante tra i “vecchi” abitanti contro gli ultimi arrivati.

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Intuizione felice quella della terza produzione del Teatro Stabile di Bolzano, di questo primo anno della nuova direzione affidata a Walter Zambaldi dopo i trentacinque sotto la guida di Marco Bernardi, che ha affidato la centralità della dialettica scenica alla gastronomia da street food, barroccini che stanno sui marciapiedi che scrutano, spiano come testimoni involontari, le mutazioni genetiche delle città, la deformazione degli slang, i cambiamenti negli usi, negli atteggiamenti. Il “brattaro” è il corrispettivo del paninaro, colui che spaletta e sferraglia a sgrassare la piastra da salse a friggere e ungere, sbatte il wurstelone dentro un panino mollicoso. Ma brattaro (gergo bolzanino, italianizzazione del termine tedesco che lo identifica) ha nelle pieghe di un’etimologia spicciola, l’imbrattare, lo sporcarsi, quel miscelarsi e meticciarsi, di ketchup e maionese ma anche tra culture e lingue, pelle e modi. Come shakerare birra e curry, il bretzel con l’hummus, lo stinco di maiale con il cous cous.

Dalla strada della cronaca nera applicata al giornalismo arriva il lavoro di Paolo Cagnan, autore di Brattaro mon amour. A tratteggiare il mistero di fondo, a pennellare di noir una storia tutta sospesa tra metaforico e realistico ci ha pensato il giovane regista, l’intraprendente Andrea Bernard, che ha condotto anche la scena verso un funzionalissimo chiosco semovente (ricorda le strutture del gruppo belga Peeping Tom o “il carretto passava e quell’uomo gridava gelati” de I Giardini di marzo di Battisti) illuminato da chiarori in conflitto con il fondale creando l’incertezza e l’attesa cromatica propria dei dipinti di Hopper, quella sensazione ambigua e dubbiosa che innerva le tele di Francis Bacon.

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Sette personaggi in cerca di se stessi, moderni Oetzi, mummie immerse nella loro solitaria glaciazione interiore, ruotano attorno come satelliti al pianeta-baracchino dove vanno a rifugiarsi per soddisfare la loro voglia di sporcarsi, per riempire quei vuoti, quei buchi, quegli interstizi lasciati vacanti da assenze d’affetto, d’amore, di solidarietà. E’ una piccola comunità spaurita, squali attorno all’atollo, iene intorno alla carcassa, gonfi d’odio in un tutti contro tutti che li inasprisce, li inaridisce. 7 come i nani senza Biancaneve, 7 come i peccati capitali: l’infermiera ucraina, lo scemo del villaggio, fool di corte che spara verità documentabili e inoppugnabili (Dario Spadon ci ha ricordato il Dustin Hoffman in Rain Man), l’ispettore meridionale (Fulvio Cauteruccio, che già si meritava il Premio Ubu con Roccu u stortu e La solitudine dei campi di cotone) bozzetto tra Derrick e Colombo, l’ironia di Poirot e il cialtrone Clouseau, Der Kommissar di Falco e Zenigata di Lupin, il figlio di papà razzista e ignorante (Paolo Grossi, intenso e carico di ferocia e fragilità come Pietro Maso, febbrile nello scatto disperato nei dripping alla Pollock con il sugo), la bella araba, il tedesco che rivendica il Sud Tirolo (Gunther Gotsch, energico quando viene in platea e affronta il pubblico), l’italiano padrone del chiosco che parla un dialetto misto veneto (l’esperto Fulvio Falzarano, cinico pendolo della bilancia e metronomo).

L’aria è quella di una provincia rabbiosa e malata, dove le uniche attrazioni sono i semafori con il rosso passione perduta, il verde speranza smarrita, il giallo sole mancante nelle loro esistenze. Questo “Brattaro” ben funziona nelle sue sfumature simboliche e metaforiche, nella ricostruzione storica di un problema annoso andatosi incancrenendo, più che nelle sue luccicanze prettamente investigative che ci portano ad Agatha Christie o nei meandri de I Soliti sospetti. “Sai dove comincia la grazia o il tedio a morte del vivere in provincia, perché siam tutti uguali: siamo cattivi, buoni, e abbiam gli stessi mali: siamo vigliacchi e fieri, saggi, falsi, sinceri, coglioni”. (Francesco Guccini, Canzone quasi d’amore).

Visto al Teatro Stabile di Bolzano, il 5 maggio 2016.

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