#BringTheCupHome. Non è solo un hashtag, ma un mantra. Almeno per chi, come gli inglesi, ancora non è riuscito a mandare giù il famoso “sgarbo” del 1851, quando le 14 imbarcazioni del Royal Yacht Squadron furono beffate nelle acque di casa (Isola di Wight) dalla goletta America del New York Yacht Club. Gli americani vinsero così la Coppa delle Cento Ghinee, che da quel momento in poi prese il nome di America’s Cup. Dopo 165 anni di magra, è dunque naturale che i sudditi di sua maestà vogliano riportare la Coppa a casa: è la motivazione più forte, al di là di tutti gli interessi economici che la più nota manifestazione velistica del mondo porta con sè.

Qualcuno, a questo punto, si starà chiedendo che c’azzeccano i motori, con questa storia. Il fatto è che per riconquistarla, questa benedetta Coppa, in Inghilterra hanno messo su un team rigorosamente autoctono, in cui sono state fatte convergere tutte le eccellenze britanniche. A cominciare dal fondatore, il quattro volte medaglia d’oro olimpica di vela Ben Ainslie, che come prima cosa ha pensato bene di accaparrarsi, in qualità di amministratore delegato, Martin Whitmarsh, figura storica della Formula Uno, se non altro perché nei suoi 25 anni di McLaren ha vinto 8 titoli mondiali e più di cento Gran Premi, molti dei quali soffiandoli alla Ferrari. “Ma sono comunque amico di Luca di Montezemolo e soprattutto di Stefano Domenicali, che appena possibile andrò a trovare a S.Agata Bolognese, sperando che mi faccia guidare una Miura“.

Non contento, sir Ainslie, ha pure trovato uno sponsor che aiutasse non soltanto economicamente – l’investimento per la Coppa America è di 90 milioni di sterline (circa 114 milioni di euro) – ma facesse crescere la squadra dal punto di vista tecnico. E qui entra in gioco Land Rover, il cui ruolo va molto oltre il mettere semplicemente il nome sulle vele o nel team, che si chiama per l’appunto Land Rover Bar (Ben Ainslie Racing).

La casa automobilistica inglese è un partner principalmente tecnico. Che ha messo a disposizione un manipolo di suoi ingegneri (solo in Inghilterra ne ha 6.500 in totale) per formare una task force che migliorasse le performance delle barche da gara. Che, ricordiamolo, sono delle vere Formula Uno del mare, con una velocità anche tripla rispetto a quella del vento in nodi, fino a raggiungere gli 85 chilometri orari.

Ma le barche non le fanno gli ingegneri navali? Che bisogno c’è di quelli che costruiscono automobili? La risposta al quesito la fornisce direttamente il capo della task force e responsabile della ricerca Jaguar e Land Rover, Tony Harper: “in certe condizioni di regata il 99% della barca viene fuori dall’acqua, solo le derive laterali (i cosiddetti “foil”) vi mantengono un contatto: i catamarani letteralmente volano. Bisogna considerare come si comportano le imbarcazioni nell’aria: l’aerodinamica è fondamentale”.

E qui viene in aiuto tutta l’esperienza in materia di Land Rover, i cui ingegneri lavorano per “imbrigliare” le forze che agiscono sulle varie parti delle barche, prevedendone il comportamento grazie a modelli computazionali avanzati. Non solo, usano l’intelligenza artificiale per trovare le migliori combinazioni di velocità e manovrabilità. E infine creano una interfaccia perfetta uomo-macchina, con sistemi di controllo on-board che inviano dati, analizzati in tempo reale. Tipo la telemetria in F1, tanto per intenderci.

Sarà per questo che Martin Whitmarsh si sente a suo agio in mezzo ai catamarani, così come lo era tra le monoposto da corsa. “Anche se confesso che la Formula Uno un pò mi manca…”. Ci tornerà? “Un giorno, magari. Ma sarà diverso. Se rivincessi in F1 non mi cambierebbe la vita. Ma se l’anno prossimo alle Bermuda dovessimo riportare a casa la Coppa America, avremmo fatto la storia”. Come dargli torto.

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