E’ arrivata di mattina. Giacca di pelle nera, occhiali da sole, t-shirt di quelle alla moda, capelli biondi perfettamente in piega. E telecamere. Tante. Troppe. La criminologa Roberta Bruzzone, neanche il tempo di accettare (senza chiedere compenso) il ruolo di consulente della famiglia di Fortuna Loffredo, è già a Caivano, tra i palazzoni scorticati di quel parco che di Verde ha solo l’età delle vittime. Al plurale.

Perché nell’omertà di questa periferia che l’Italia ha provato a nascondere alla sua coscienza non sono morti solo Fortuna e il piccolo Antonio Giglio. Qui il rischio è uccidere anche le speranze di futura normalità delle altre bambine che hanno subito le attenzioni bavose del o dei pedofili. E che meritano di dimenticare. Chi ha letto le carte dell’inchiesta, invece, non può e non deve ignorare le ricostruzioni degli abusi fornite a chi indaga dalle tre sorelline di Antonio Giglio. Che ora sono protette in una casa famiglia, ma un domani chissà quanto remoto non avranno alcuna difficoltà a trovare in Rete la cronaca e gli ammennicoli da talk show della loro infanzia di degrado. E rivivranno tutti quei momenti su cui gli psicologi hanno lavorato tanto per cercare di cancellare ricordi e conseguenze.

Ma alla lobby della cronaca nera in favore di telecamera il futuro delle vittime non interessa. La carta di Treviso? Robetta da azzeccagarbugli. E infatti è successo un’altra volta: il luogo del delitto è diventato un set televisivo in cui protagonisti più o meno consapevoli si muovono sul copione disegnato per loro da chi segue uno scopo diverso. Usati. Per ritorno di immagine. Per dovere di cronaca mediaticamente nera.

E così c’è quel papà assente dalla vita delle figlie che d’un tratto ricorda di aver perso un maschietto di tre anni e va a piangerlo col senno di poi sulla tomba. C’è l’altro papà che chiede giustizia implacabile per il presunto assassino stupratore (“io sono stato 10 anni in carcere per molto meno”) e urla domande che avrebbe dovuto porre almeno due anni fa. Ci sono altri personaggi da retrobottega a fare da comparse. I vuoti a rendere.

Tutto in favore di telecamera. Inquadratura giusta al momento giusto nel posto giusto. La presenza di Roberta Bruzzone è la chiusura del cerchio e del circo. Per carità, esperienza e capacità non sono in discussione e potranno di certo esser utili alla difesa nel prosieguo delle indagini. Il delitto, invece, è quella telecamera piazzata all’ultimo piano del palazzo all’isolato 3 del rione Iacp. E’ quella sequenza che parte dall’ottavo piano, dai capelli biondi della criminologa, e finisce sull’asfalto: frazioni di secondo che sembrano voler ricostruire la caduta nel vuoto di Fortuna, Antonio e della decenza umana. Il delitto sarà – se ci sarà – l’ennesimo plastico nello studio di Bruno Vespa. Immaginate: il parco Verde nel salotto bianco, c’è già il titolo sulla grafica che fa da sfondo.

In due parole: il delitto è e sarà quella spettacolarizzazione del crimine che il caso Avetrana ha trasformato in una vale tudo della cronaca giornalistica. Questa volta, però, doveva essere diverso: almeno tre vittime hanno meno di 12 anni e una vita quasi interna davanti. Serviva basso profilo, invece si è preferito accendere le luci dei riflettori, approfittando della miseria degli attori non protagonisti. Che magari barattano dignità per pochi spiccioli e 10 minuti di diretta tv in qualche arena domenicale. “L’assassino ha avuto uno o più complici” dice la Bruzzone. Chissà. Ma se un domani le tre sorelline di Antonio digiteranno su Google nomi e cognomi, rivedranno tutto e ripiomberanno negli abissi del parco Verde, l’unico complice sarà la luce rossa della telecamera che tutto ha registrato, impedendo l’oblio sulle immonde storie di Caivano. “Serviva proteggerle queste bambine” diranno di aver detto. Nel frattempo non resta che aspettare il generale Garofalo che sale sul palco.

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