Dall’isola di Lesbo

“Non ho fatto niente di particolare e a malapena sapevo cosa fosse un Nobel prima”. Emilia Kamvisi (83 anni) è la nonna di Lesbo candidata al Nobel per la Pace per la foto che ha fatto il giro del mondo e che la ritrae insieme alla cugina, Maritsa Maurapidu (85 anni) e all’amica Efstasia Mavrapidu (90 anni), mentre allatta con un biberon un piccolo migrante siriano appena sbarcato. È diventata il simbolo di quell’isola, della sua generosità e IlFattoquotidiano.it ha deciso di incontrarla nella sua casa sull’Egeo. Vive a Skala Sikamias, un villaggio sulla punta nord di Lesbo, che si raggiunge su un’unica strada, da Mitilene, che prima si arrampica su montagne deserte e poi scende giù, verso il mare, srotolandosi attorno ai campi di ulivo. In mezzo il nulla. Solo centinaia di pecore che brulicano con la loro flemma sul ciglio della carreggiata. E cani pastori che scrutano dall’alto.

Lesbo, da terra di speranza a terra di prigionia (5)La casa di Emilia è tra le prime che s’incontrano entrando nel paese: un bilocale umile, incastrato tra le altre case, che è riuscita a comprarsi lavorando una vita come raccoglitrice di olive. È lei ad aprirci la porta. Kalispéra e ci invita a entrare. “Ah, fate foto?”, chiede. “E allora vado a pettinarmi” e scappa vanitosa in camera da letto. In mezzo alla sala, un tavolino stracolmo di foto di famiglia, tra cui quella che le ha portato una candidatura al Nobel per la Pace, in due versioni: medium e large. Quando rientra, afferra orgogliosa quella grande. “Questa sono io”, dice indicando la donna che sta allattando. “Quest’altra è Maritsa”, la cugina. “E questa – indicando l’ultima – Efstasia”. 

La prima volta che i migranti sono sbarcati su quella costa Emilia era in casa. “Era giugno dello scorso anno ed erano circa le dieci di sera – racconta – Stavo andando a dormire quando ho sentito delle grida pianti, altra gente urlava ‘ci sono i profughi’. Sono andata fuori e ho visto salire per il paese centinaia di persone fradice, infreddolite. Altre erano ancora sulla spiaggia. Così io e le mie cugine abbiamo preso quello che avevamo, vestiti, cibo, latte e lo abbiamo portato giù”.

Da quel giorno Emilia è andata ogni giorno sul mare ad aspettare i migranti. Non aveva cibo o vestiti da donare. Ma abbracci, solidarietà, umanità. Perché tutto serve, quando arrivi sfinito e impaurito, dopo un viaggio in mare trascorso a pregare Dio che il gommone non si bucasse, che la benzina non finisse, che qualcuno non li rispedisse indietro.

Ed Emilia lo sa bene, essendo figlia di migranti. La madre è emigrata dalla Turchia negli anni Venti per fuggire alla persecuzioni contro i cristiani ed è approdata su quelle stesse coste dove adesso sono tornati a sbarcare migranti. Aiutarli per Emilia è naturale. Un dovere inconscio. Come quel gesto, così familiare per lei che ha quattro figli, di allattare un bimbo non suo. “La mamma era fradicia e le abbiamo detto di darci il bambino e andare a cambiarsi – racconta – Il piccolo ha iniziato a piangere così ho detto Maritsa di andare a prendere il biberon. All’inizio non riusciva a bere perché il latte era bollente. Così l’ho raffreddato con l’acqua del mare”.

Prima dell’accordo tra l’Unione europea e la Turchia arrivavano a Skala Sikamias dalle trenta alle sessanta imbarcazioni al giorno stracolme di migranti. Adesso ne arriva una ogni dieci giorni, quando arriva. “Mi sento vuota senza di loro – confessa Emilia – Mi faceva stare bene portar loro aiuto, abbracciarli, farmi raccontare le loro storie. Sono tutte persone buone e riconoscenti. Una di loro una volta si inginocchiò addirittura per baciarmi i piedi. Mi mancano”. Poi fa una pausa, gingilla un po’ con il fazzoletto e riprende: “È sbagliato chiudere le frontiere, è sbagliato impedire agli uomini di scegliere dove vivere”.

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