L’unico ricordo che mi è rimasto impresso di Pino Maniaci è la sua spocchia. Me lo presentò una sera a Catania al centro ZO, la compianta Elena Fava, credendo evidentemente di far cosa gradita ad entrambi. Maniaci, mi guardò come uno scarafaggio. Devo dire che non me dolsi per nulla e mi dedicai a fare una cosa più seria: bere una birra. Ma in quello sguardo – ripensandoci – c’era già tutto quello che abbiamo visto e ascoltato, con sgomento e schifo, nelle intercettazioni telefoniche.

telejato_675

Parlare del personaggio giova a poco. Si è raccontato da solo. Lascio ad Ingroia e a Orioles i tentativi di disperata e patetica difesa. A quest’ultimo, autore dell’ennesimo picaresco scritto a difesa dell’indifendibile  dico ancora una volta che dovrebbe avere più rispetto per le persone per bene. C’è differenza profonda tra chi (contadino, zappaterra, pescatore o professore d’università poco importa) si inchina davanti al profumo dei soldi (pochi o molti non fa differenza) e del potere, chi si costruisce su menzogne d’accatto il ruolo di eroe e chi l’eroe lo fa in silenzio, sgobbando ogni giorno tra redazioni, procure, strade. Tra chi le inchieste le fa, e ci mette la faccia e chi millanta di aver fatto aprire casi giudiziari per poi essere prontamente smentito dalle Procure interessate.

Orioles dovrebbe stringere la mano non a Maniaci, ma a chi fa il giornalista sul serio, con umiltà, senza cercare medaglie e dovendo magari guardarsi le spalle quando rincasa la sera da solo o da sola. Se proprio vuole cercare eroi il signor Orioles può andare a guardare il lavoro dei tanti cronisti (veri e non sbruffoni) che ci raccontano quello che succede in Sicilia e non solo. Non faccio elenchi. Basta avere la buona fede di navigare sui siti, leggere i giornali e guardare la televisione. La narrazione di questi decenni, mi spiace per Orioles, non l’ha fatta TeleJato o certi giornaletti autoreferenziali che non legge nessuno a parte chi li scrive.

Quello che il Paese conosce della Sicilia, della Calabria, della Campania non è il racconto fatto degli sbruffoni che abbaiano alla luna, per poi – a luna calante – andare ad accattare una piccola mazzetta. Il racconto lo hanno fatto donne e uomini, che questa professione la fanno sul serio con difficoltà tremende in un mercato schifoso. Quelli che ogni giorno raccontavano i processi di mafia e di camorra ad esempio. Tutti santi giorni lì, a raccontare quello che succedeva in aula, pigliandosi insulti e minacce (vere). E non solo. Le cronache quotidiane, con le facce dei boss, dei politici che con i boss vanno a braccetto, il racconto dei soldi mangiati.

Tutti i giorni, con i nomi e i cognomi. Dentro le pagine di cronaca locale, spesso reggendo i cazziatoni dei capi e vedendosi i pezzi maltrattati, nei telegiornali, sull’online, o a volte – quando la sorte è amica – sulle pagine nazionali di un grande giornale. Spesso precari, abusivi, con contratti “a progetto”. Gente che ci campa (assai spesso male) con questo lavoro e non certo con le mazzette raccattate con un piccolo ricatto paesano. A questi dovrebbe andare a stringere la mano Orioles.

Qualcuno di loro, qualche anno fa, ci ha lasciato la pelle, come Giancarlo Siani che scriveva sul Mattino di Napoli, non su TeleJato. Qualcun altro – più fortunato – ci ha rimesso solo il lavoro ed è dovuto andar via. Non tutti per cento euro vendono il sedere e l’anima. Tre miei colleghi, licenziati da Ciancio nel 2006, tutt’oggi non hanno un lavoro. Per quasi dieci anni sono andati avanti con fatica e onestà. Non sono andati ad estorcere denaro, non si sono inventati attentati per costruirsi una carriera. Hanno mantenuto la loro coscienza di persone perbene. A loro dovrebbe andare a stringere la mano Orioles.

Agli occhi di Orioles, probabilmente uno come Giancarlo Siani non era da considerare libero perché pigliava uno stipendio (da fame) e scriveva su un giornale con un editore, oggi magari gli va bene, ma solo perché è morto, ammazzato dai camorristi. E’ invece libero – secondo il suo pensiero – Pino Maniaci che i soldi se li fa dare (con estorsione o meno, lo stabiliranno i Tribunali) da un sindaco di un comune in procinto di essere sciolto per mafia. A uno come Maniaci, Orioles fa giusto un piccolo rimbrotto. Fa parte della sua Chiesa, anzi è un Santo del suo sgangherato Paradiso, e dunque applica la sua d lo invita, come un curato di campagna, a ravvedersi “suvvia sei un simpatico bricconcello, un po’ naif … ma queste cose non si fanno”… Un buffetto sulla guancia, l’assoluzione con un Pater, e due Ave e un Gloria e poi Pino può tornare a fare il magnifico pagliaccio su TeleJato. Questo assunto è da analizzare non con le categorie della polemica giornalistica, ma credo con quelle della psicoanalisi.

Detto ciò, mi occupo di quello che mi preme di più e parto da quanto ha scritto nell’immediatezza dei fatti, Claudio Fava . Uno scritto dolente, quello di Fava, con dentro una cifra importante di autocritica, non dovuta, ma necessaria. Uno scritto condivisibile certo, fino all’ultima parola. Credo però che l’analisi fatta da Fava, per quanto giusta, da sola non basti.  Credo che la vicenda miserabile che stiamo a commentare si lega ad altre vicende e si lega ad un conformismo che ha attraversato anche le persone perbene che sull’antimafia hanno costruito non carriere e prebende, ma lacrime, sangue e sudore. Un conformismo fatto di buona fede, ma pur sempre nemico della ragione e della libertà.

Per troppi anni abbiamo visto portare in giro per convegni, per salotti televisivi, per premi intitolati a gente perbene, una teoria di personaggi di dubbia morale; è bastato sentire roboanti interventi nei convegni, interviste sui compiacenti quotidiani nazionali , vergate da penne altrettanto compiacenti, per trasformarli in eroi. Per dare loro, non solo pennacchi e pennacchini, ma la patente di gente perbene, dietro la quale hanno costruito il sistema di potere, in alcuni casi grande, in altri casi piccolo, miserabile, limitato al paesello o al circondario. Un potere che in alcuni casi ha stritolato, o almeno ci ha provato, gente onesta che aveva l’unica colpa di non far parte del loro cerchio magico o che si opponeva al loro sistema di potere.

Prima di Pino Maniaci ci sono stati fatti altrettanto gravi. Le accuse pesanti e documentate ad Antonello Montante, quelle recenti a Ivan Lo Bello, la patetica vicenda di un solerte pagatore di tangenti ai mafiosi, divenuto eroe dell’antimafia e Senatore del Regno come Andrea Vecchio e ancora la picaresca vicenda umana e politica di tale Rosario Crocetta. Tutti dietro lo scudo dell’antimafia, pronti ad esibire – alla minima difficoltà – un attentato (sempre ideato e mai portato non dico a termine – Dio ci scansi – ma neppure arrivato in fase esecutiva) due poveri cani impiccati da un marito cornuto.

Per non parlare dei riciclati, di coloro che stavano ad esempio al Giornale del Sud per tagliare l’erba sotto i piedi a Pippo Fava e che anni dopo si propongono come giornalisti antimafia, mi spiace dirlo anche grazie al compiacente e colpevole silenzio di chi la loro storia conosceva benissimo, avendola subita. Tutti in un fiorire di scorte (usate, nel caso di Ivan Lo Bello per andare a cena con un signore allora imputato di mafia come Mario Ciancio) di protocolli di legalità, convegni e comparsate.

Ecco cosa è stata questa stagione tristissima dell’Antimafia. Io l’ho chiamata “L’antimafia di carta”, per non usare un termine più maleodorante. E l’Antimafia di carta ha fatto scomparire, ha emarginato, bistrattato e spesso massacrato, l’Antimafia vera: quella fatta ogni giorno da centinaia di persone che facevano onestamente e con enorme difficoltà il loro dovere di persone perbene e di cittadini onesti.  Forse non basta – come fa Claudio Fava – pretendere risposte da Pino Maniaci, forse le domande dobbiamo porle a noi stessi, a l’idea che abbiamo avuto dell’antimafia. Forse ci siamo accontentati delle parole, delle chiacchiere, forse perché volevamo crederci, volevamo sentirci meno soli. Quando già alcuni anni fa ho provato a porre la questione, con alcuni scritti su questo Blog, sono stato additato come amico dei mafiosi. Ponevo la questione dell’attualità dell’allarme lanciato da Leonardo Sciascia sui professionisti dell’antimafia, fatta salva la giusta tara nei confronti d Paolo Borsellino. Forse dobbiamo ripartire proprio da Sciascia e cominciare a farci le domande che vanno fatte.

Articolo Precedente

Pino Maniaci, caro amico: riprenditi dall’ubriacatura e torna come prima

next
Articolo Successivo

Aldo Moro, Peppino Impastato? “Chi sono maestro?”

next