Aleppo brucia. La comunità internazionale guarda. Bisogna trovare le parole per denunciare, ma quali parole devono essere dette di fronte a quello che è ovvio, sotto gli sguardi di tutti? Vogliono far finire Aleppo come Homs, ma sapete cos’è successo a Homs? Tre anni di assedio della città vecchia, moschee e chiese profanate, come quella di Khaled Ibn Walid; centinaia di morti, molti per fame, sete e interi quartieri scomparsi, rasi al suolo. Ma Homs non è stata Kobane. Homs è valsa di meno, per chi oggi supporta Kobane rendendo la Siria, il suo dramma, un’entità indecifrabile a sud di quel villaggio.

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Qualche tempo fa ho incontrato una persona che è stata a Homsla vita scorre tranquilla nel suq – mi ha detto poi cammini e arrivi davanti a Jurat Al Shiah. Non c’è un palazzo in piedi. Vedi una distesa grigia, quella dei palazzi che c’erano. La natura, i fiori, stanno coprendo quello che è stato distrutto”. Curioso e tragico: anche la natura, l’erba e gli alberi, nascondono le testimonianze di quello che è successo. Forse per la troppa vergogna: quella di siriani che ammazzano altri siriani, li torturano a morte e li negano. Così vogliono negare Aleppo. Dicono che “l’ospedale – che è nella zona dei ribelli – l’hanno bombardato i ribelli stessi”, questa frase ricorda quando, nell’agosto del 2013, nella Ghouta (Damasco) vennero usate le armi chimiche provocando la morte, in una sola notte, di 1400 persone, ribelli compresi.

Allora, qualcuno si affrettò a dire che erano stati i ribelli a usare le armi chimiche contro se stessi per provocare l’intervento armato americano – che alla fine non ci fu, grazie alla mobilitazione internazionale. Curioso poi che un intervento armato, pesante, violento alla fine ci sia stato: quello dei russi che ha provocato già migliaia di morti, con il bene placido di quegli anti-americani che sono contro la guerra (solo) se la fanno gli americani. Siamo noi i venduti: i Siriani che hanno richiesto la libertà, rivendicando la necessità della fine della dittatura cinquantennale e l’emancipazione da qualsiasi fondamentalismo (cristiano o musulmano). Si, anche cristiano. Come lo chiameremmo quel comportamento portato avanti dai patriarchi, vescovi e preti delle chiese d’oriente in Siria che negano il genocidio perpetrato da Assad giustificandolo – se poi bisogna davvero giustificarlo – con “meglio una dittatura che quello che c’è dall’altra parte”. Allora, per loro, è una pratica accettata la pulizia religiosa ai danni dei sunniti se questo serve a proteggerli dal futuro.

Che importa al mufti siriano sunnita Hassun se le moschee vengono bombardate e alcuni (centinaia di migliaia) sunniti, insieme a alcuni cristiani, vengono inghiottiti dalle carceri o muoiono sotto i bombardamenti. Meglio un bombardamento, lo si accetta di più, lo si può giustificare, piuttosto che una decapitazione. Poco importa se una giornalista siriana, Kinana Allouche, del canale televisivo governativo si fa un bel selfie, sorridente, con la chioma di capelli al vento, dimostrando che Assad è laico e non le fa coprire il capo, con i cadaveri sullo sfondo. Sono morti che possono essere giustificati: sono tutti terroristi, come il mezzo milione di morti siriani.

Su di loro bisogna mettere un velo: quello della memoria, come è stato messo sui morti di Hama del 1982 che, alla fine, erano tutti e 20 mila, nessuno escluso, fratelli musulmani e quindi degni di essere messi sul patibolo da Assad padre e dal fratello, il miliardario Rifat che vive fra Parigi e Londra senza aver mai pagato. Siamo noi quelli pagati: capaci di criticare le deviazioni della rivota, il radicalismo e i crimini che alcuni compiono in nome suo. E’ per questo che Aleppo deve essere bombardata, fino a quando tutti, bambini, ospedali, rivoluzione, motivazioni, storie, dissenso e libertà non vengano finalmente cancellate dalla faccia della terra. Poi, in quel momento, quando questo sarà realizzato, siamo sicuri che verranno troupes televisive, scortate da perfetti gentiluomini, accusati di crimini contro l’umanità, che possono essere giustificati – diranno – di fronte ai crimini fatti dai barbuti dell’Isis, e cominceranno a riprendere il suq bruciato e i torrioni delle mura della cittadella di Aleppo che cascano a pezzi.

E’ già stato ripetuto, più volte, su queste pagine che per carpire la verità della Siria basterebbe farsi un giro in un campo profughi di siriani, magari a Kilis o Idomeni, e chiedere a loro, a chi scappa da Aleppo, Homs, Damasco e le mille altre località da cosa scappa. Forse comprenderemmo che neanche chi oggi ci sembra buono, perché inquadra donne nelle sue brigate e canta ‘bella ciao’, è un santo. Potremmo così, toccando con mano e guardando negli occhi le vittime capire la loro storia, quella che giornalmente viene negata, con buona pace di chi fra di loro è già morto.

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