Il precipizio della Banca popolare di Vicenza (Bpvi) – le cui azioni sono passate in un anno dal valore presunto di 62,5 euro a quello certo di 10 centesimi, con la cancellazione di oltre 6 miliardi di euro che i 119mila soci credevano di avere in tasca – sta mettendo nei guai Ignazio Visco. Gli errori della vigilanza di Bankitalia diventano sempre meno difendibili di fronte alla cruda realtà dei fatti.

Il 19 aprile scorso, al Senato, il governatore ha dato la dimostrazione scientifica di un caos sempre meno governabile. A proposito di Banca Etruria, ha accusato il cda della banca di Arezzo che, nel 2014, “rifiutò di considerare l’unica offerta di integrazione ufficiale, avanzata autonomamente dalla Popolare di Vicenza”. Per quel rifiuto gli amministratori di Etruria sono stati commissariati nel febbraio 2015 e poi sanzionati da Bankitalia per 2,2 milioni di euro. Visco ha però rivendicato che, nello stesso 2014, Bpvi era già nel mirino della vigilanza perché sopravvalutava le azioni e prestava ai clienti il denaro per sottoscrivere gli aumenti di capitale, nascondendo così il pesante buco patrimoniale. Il 31 agosto 2015, l’ispezione “condotta dal personale della Banca d’Italia” è sfociata nella cancellazione di quasi un miliardo di capitale di Bpvi, oggi in via di salvataggio grazie all’intervento pubblico-privato del fondo Atlante; l’1 marzo 2016, su ispirazione dell’occhiuta vigilanza, Visco ha multato gli ex amministratori di Etruria per non essersi consegnati alla banca dai conti truccati. La vicenda fa sospettare che il governatore non abbia il pieno controllo della vigilanza, il cui capo Carmelo Barbagallo sembra esercitare un dominio pieno e incontrollato sul sistema bancario.

Un avvertimento era già arrivato a gennaio dal ministro Maria Elena Boschi: “Mi fa sorridere il fatto che alcuni autorevoli esponenti oggi prendano determinate posizioni, pur sapendo che sono le stesse persone che un anno fa suggerivano a Etruria l’aggregazione con Vicenza”. Incurante dell’avvertimento, la vigilanza ha fatto scattare la mannaia per papà Pier Luigi Boschi e soci. Venerdì 26 febbraio Barbagallo ha vistato la proposta di sanzioni contro 15 ex amministratori e cinque ex sindaci revisori. Lunedì 29 febbraio l’avvocato generale della Banca d’Italia, Marino Perassi, ha formulato il suo parere per il Direttorio, composto dal governatore, dal direttore generale Salvatore Rossi e dai tre vicedirettori generali. Martedì 1 marzo il Direttorio ha approvato le sanzioni proposte. Il procedimento ha avuto inizio ad aprile 2015 e si è dipanato con burocratica agilità per circa 9 mesi. Al Direttorio sono bastate poche ore per valutare il complesso incartamento e sottoscrivere senza eccezione le proposte di Barbagallo.

Il procedimento contiene qualche stranezza. Per esempio, sul no all’integrazione con Bpvi gli ispettori accusano il cda: “Ha per lo più ratificato scelte e decisioni assunte in altre sedi. Al riguardo merita attenzione il ruolo svolto dalla Commissione consiliare informale…”. Gli ispettori eccepiscono che la Commissione informale non verbalizza le sue riunioni, e ciò rende “poco trasparente” il tutto. Gli accusati replicano che non si verbalizzava stante il carattere informale di una commissione detta “informale”. L’accusa conclude che pur non essendoci elementi per “ricondurre specifiche responsabilità ai suoi componenti”, la Commissione informale “non ha contribuito ad agevolare la trattativa” con Vicenza. E perciò il Direttorio sanziona.

La Vigilanza ha una procedura da Santa Inquisizione, o staliniana. L’accusa formula le accuse. Gli accusati scrivono le controdeduzioni. L’accusa scrive per il Direttorio, che sarebbe il giudice, un documento in cui sintetizza gli addebiti e anche le tesi difensive, bocciandole con formule del tipo “i deducenti non sono riusciti a confutare” o con la tombale “le difese presentate non smentiscono gli addebiti ispettivi”. Il Direttorio prende atto e approva al volo le proposte di condanna. Questo significa che il vero confronto tra accusa e difesa avverrà di fronte alla Corte d’appello. E lì per Visco saranno dolori, perché verrà passato al setaccio pubblicamente il processo fatto in casa, con l’accusa che se la suona, se la canta e scrive la sentenza.

Dietro schermaglie formali che appassionano avvocati e burocrati di Bankitalia, c’è una sostanza imbarazzante. Bankitalia accusa i vertici di Etruria di non aver ottemperato all’ordine di integrarsi con un partner di “adeguato standing”. L’ordine è stato dato da Visco con la lettera del 3 dicembre 2013, conseguente all’ispezione guidata dal capo ispettore Emanuele Gatti. Il quale Gatti, considerato l’uomo di maggior fiducia di Barbagallo, finita l’avventura aretina va a occuparsi proprio della Popolare di Vicenza. È lui, come rivendica ufficiosamente la stessa Bankitalia, a scoprire nell’estate 2014 che il presidente di Bpvi Gianni Zonin finanziava i soci per la sottoscrizione dell’aumento di capitale. È lui a scoprire che l’aumento di capitale da un miliardo – ufficialmente finalizzato all’acquisto di altre banche – serve solo a tappare i buchi del bilancio. È lui, dunque, che avrebbe dovuto telefonare in sede per avvertirli di lasciar perdere l’idea di far comprare Etruria da Zonin. Invece Gatti si limita a denunciare alla procura di Vicenza presunti prestiti facili ad Alfio Marchini, operazione che il candidato sindaco di Roma liquida come “fango elettorale”.

Quando scoppia una grana, Bankitalia dice che sapeva tutto ma non poteva dirlo per la riservatezza a cui è tenuta. Bankitalia si sente per definizione infallibile e giudice di se stessa. Ma adesso il flipper delle contraddizioni sta andando in tilt. Se papà Boschi e soci avessero accettato l’offerta di Zonin si sarebbero messe insieme due banche malate e i problemi si sarebbero moltiplicati. Bankitalia stava facendo una scommessa rischiosissima, di cui il governatore forse non era consapevole. Ai vertici di Etruria che hanno ostacolato l’operazione, Visco dovrebbe dare un medaglia. Invece li ha multati, per non ammettere un clamoroso errore.

Da Il Fatto Quotidiano del 27 aprile 2016

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