Un mese fa scorrazzavo sudata e beata per le strade sudicie di Bangkok. La città è un allegro caos, una rappresentazione animata da esaminare dal vivo senza perdersi un colpo, sporcandosi mani e piedi e respirando l’atmosfera festante. Wok colmi di noodles e zenzero, fiamme altissime che lambiscono il cielo su fornelli a gas improvvisati, venditori di scorpioni e abiti da uomo su misura, fricchettoni mai più rimpatriati, abili truffatori in cerca di polli da spennare. Impossibile distrarsi a Bangkok. Eppure sui tuk tuk – una sorta di Ape Piaggio in salsa tailandese usata come taxi – non era raro vedere turisti annoiati, distesi sul retro, che anziché tendere il naso al mondo sfrigolante lo tendevano alla mano e al telefono. A Bangkok??

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Qualche giorno fa ero a Roma per lavoro. Sono entrata dentro il Pantheon, bellezza mistica che non visitavo da tempo. Una fiumana di gente è entrata in coda, silenziosa. Davanti a me turisti ciondolanti s’accalcano, mi blocco a osservarli. Non guardano la magnificenza intorno a loro. La filmano. Senza fermarsi un istante per capire dove sono. Guardano sì, ma attraverso il filtro del cellulare. E non è la stessa cosa.

Quando sono in giro per le Cinque Terre coi clienti, a ridosso dei punti panoramici si scatena la lotta per il passaggio, e a colpi di selfie stick la folla si fa largo per la foto perfetta, salvo poi ritoccarla su Instagram. Guardiamo … ma vediamo? Siamo nel mondo … ma quanto lo viviamo? Osservare quell’enigma che chiamiamo vita attraverso le lenti di uno schermo non è come farlo coi propri occhi, quel velo ha già sporcato l’impressione iniziale, il primo impatto tra noi e l’ambiente esterno.

In molti viaggiano col satellitare, muovendosi in città straniere grazie alle app che segnalano i percorsi più veloci, più facili, quelli già fatti, si paga il biglietto del treno sul telefono, si paga il parcheggio cittadino in un click. Comodo, efficiente. E’ questo che rende la nostra esistenza migliore? Una vita da svizzeri dove gli ingranaggi si incastrano lisci senza intoppi? Abbiamo messo in valigia la praticità barattandola con l’avventura e per molti è più consono così, non so però quanti siano davvero consapevoli di quello che hanno lasciato.

Quando guidavamo attraverso Bangkok un giorno ci siamo persi e le diramazioni a polipo delle tangenziali ci hanno inghiottito. La mappa comprata online era stata dimenticata in Italia, il thai non sapevamo leggerlo e devo dire che abbiamo vissuto alcuni momenti di panico. Dopo un’ora su e giù per lo stesso chilometro abbiamo fermato un tassista pregandolo di scortarci fuori dall’inferno e incollati alla sua auto rosa shocking siamo usciti dal traffico congestionato. Esperienza a tratti surreale, non esattamente piacevole, ma che resterà appiccicata al nostro album di ricordi senza foto. Lunga premessa per dire che dietro la perfezione senza errori delle app resta la sterilità di un algoritmo che priva la nostra vita di due elementi indispensabili: l’errore e l’imprevisto. L’errore stimola la crescita, l’imprevisto affina l’istinto. La ricerca, l’errore o l’inciampo richiedono un’attesa, dei tempi morti che oggi vengono visti come inutili ritardi, sprechi. Tutto scorre e poco resta, un po’ come i messaggi di 24 ore su Snapchat.

“Oh mio Dio”, ha pronunciato schifato il cameriere indiano dall’accento romano l’altra sera in un ristorante del ghetto. Aveva notato appoggiato sul tavolo il citofono che uso come telefonino. “Così va la vita”, diceva Billy Pilgrim nel Mattatoio n.5. Sono una cultrice cronica del viaggio alla Kerouac e anche se i treni merci non li prende più nessuno, voglio ancora poter decidere io che strada sbagliare.

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