Vent’anni fa – era il 24 aprile 1996 – moriva nella sua casa di Terni Torquato Secci, primo presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. La notizia della sua scomparsa si diffuse a Terni durante le celebrazioni del 25 aprile. Militare nella Marina, dopo l’8 settembre 1943 aveva partecipato alla Resistenza nel Reggimento San Marco. Nella strage aveva perso il figlio Sergio, di 24 anni, che a Bologna si era laureato al Dams con 110 e lode: quel giorno stava aspettando un treno per Bolzano. “Vogliamo che il nome di nostro figlio sia legato a borse di studio per liceali della nostra città. Per i migliori: e, a parità di merito, per i più giovani. Sergio era un anno avanti negli studi”: parole di Torquato e della moglie Lidia, madre di Sergio. Il dolore trasformato in energia per un futuro migliore.

strage di bologna

A Torquato Secci è intitolata la sala d’attesa della stazione centrale di Bologna, dove esplose la bomba fascista, meta ogni anno di migliaia di studenti e milioni di viaggiatori. Lo scorso 24 aprile Piantiamolamemoria ha accompagnato una ventina di ragazzi dell’Arci di Amelia (provincia di Terni) in visita alla stazione. Dopo aver conosciuto Paolo Sacrati, che nella strage perse la mamma e la nonna, quei giovani concittadini di Secci hanno poi raggiunto il sacrario di Piazza Nettuno, dove si trovano il sacrario ai caduti nella Resistenza e la lapide di vetro dedicata alle vittime delle tre stragi ferroviarie avvenute tra il 1974 e il 1984 sulla direttissima Bologna-Firenze.

E’ doveroso ricordare il buon esempio di Torquato Secci. Dovrebbe farlo l’Italia intera, non solo Bologna, non solo Terni. E andrebbe ricordato anche il suo motto: “Avanti tutta!”, verso la ricerca dei mandanti. Per avere, anche se tardi, la giustizia e la verità dovute. Nel suo ultimo discorso davanti alla stazione, il 2 agosto 1995, Secci pronunciò queste attualissime parole: “I tempi sono maturi per un giudizio politico sullo stragismo e per l’allontanamento dalle istituzioni di chi lo ha favorito, anche solo con la sua colpevole inerzia. È immorale fare il paragone, come fa Cossiga, fra la guerra di Liberazione e quello che hanno fatto i terroristi. I familiari delle vittime non possono accettare di vedere gli assassini dei loro congiunti in libertà prima di quanto previsto dalle relative sentenze”.

Purtroppo oggi Mambro (8 ergastoli), Fioravanti (7 ergastoli) e Ciavardini (condannato a 30 anni, perché nel 1980 era minorenne), pur non avendo mai collaborato con i magistrati – né essersi pentiti – sono liberi. Non tutti lo sanno. Una ragazzina di Amelia, quando l’ha saputo, ha chiesto a chi quel 2 agosto era in stazione: “Se ti capitasse di incontrarli per strada a Roma cosa faresti?”. “Mi sforzerei di non considerarli. Anche perché se in galera ci finissi io, so che ci resterei…”.

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