Un fiore deposto a piazza Turba, a Palermo, lo stesso luogo dove trentaquattro anni fa entravano in azione i killer di Cosa nostra per assassinare il deputato del Pci Pio La Torre e il suo autista Rosario Di Salvo. Alla fine Matteo Renzi è riuscito a trovare una attimo per commemorare l’omicidio del politico comunista, in mezzo ad una frenetica giornata trascorsa tra la Calabria, Catania e Palermo. “Noi combattiamo senza pietà la criminalità organizzata: abbiamo stima e riconoscenza per forze dell’ordine che lavorano e tutti quelli che combattono tutte le sue forme insopportabili e odiose. Ma la criminalità va combattuta con i fatti, come processi e sentenze, e non con le parole”, ha detto il presidente del Consiglio, mentre i flash dei fotografi lo immortalavano davanti alla lapide che ricorda l’assassinio. Una dichiarazione che segue le parole di dieci giorni fa, quando in Parlamento Renzi aveva denunciato l’esistenza di “un’autentica barbarie giustizialista negli ultimi 25 anni” e quelle scritte dall’ex sindaco nella enews di una settimana fa: “Io rispetto i magistrati, ma aspetto le sentenze”.

Nulla di inedito nella visione “politico giudiziaria” del segretario del Pd. O meglio, quasi nulla. Perché questa volta il premier non stava parlando di generiche inchieste della magistratura o di indagini sul petrolio in Basilicata: si stava esprimendo su un tema delicato come la lotta alla mafia. Una battaglia, che – contrariamente a quanto dichiarato dal Renzi – non può essere fatta soltanto con le sentenze ed i processi. A dirlo è la storia: a cominciare da quella dello stesso La Torre, che da politico venne assassinato dopo aver teorizzato il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso con annessa la prima legge per la confisca dei beni ai clan, fino a don Pino Puglisi, il sacerdote ucciso a Brancaccio perché con la sua opera pedagogica stava allontanando i ragazzi dalla strada, dove diventavano galoppini dei boss di quartiere, passando dagli otto giornalisti che in Sicilia hanno pagato col sangue gli articoli e le inchieste sui tentacoli della piovra. Ma non solo.

Perché qualche ora prima di Renzi, davanti alla lapide di La Torre era comparsa Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare antimafia, che già in passato era entrata in polemica con il segretario del Pd, come nel caso dei candidati impresentabili alle elezioni regionali del 2015. “La politica – ha dettola presidente di Palazzo San Macuto – preceda la magistratura nella selezione della classe dirigente. Si adottino i codici etici di comportamento e questo non significhi solo andare a guardare il casellario giudiziario, bisogna capire se si fa politica per interessi personali. Se per essere eletti si accettano certi patti elettorali, non ci si affidi al detto i voti non odorano, i voti della mafia puzzano, legano le mani e tolgono la libertà”. Parole che in pratica fanno a pugni con le dichiarazioni di Renzi e che nel day after della commemorazione di La Torre ricostruiscono un quadro dicotomico della visione della lotta alle associazioni criminali: da una parte la ricetta di Renzi, che vorrebbe combattere le mafie solo con processi e sentenze, dall’altra la versione di Bindi, che al contrario vorrebbe una politica capace addirittura di anticipare le inchieste della magistratura.

Due versioni contrapposte, mentre persino la vigilia dell’arrivo di Renzi in Sicilia era stata bersagliata dalle polemiche: nelle prime tre versioni del programma, infatti, Palazzo Chigi aveva dimenticato di menzionare la visita del premier per l’anniversario dell’uccisione di La Torre. A salvare tutto ci aveva provato il sottosegretario Davide Faraone, che su twitter non trovava di meglio che scrivere: “Domani anniversario omicidio Pio La Torre. A #Pa e #Ct presentiamo con @matteorenzi i patti per le due città. Diamo concretezza al ricordo”. Quando si dice la toppa peggio del buco: il vicerè siciliano di Renzi, infatti, è stato subito accusato di fare propaganda al governo utilizzando la figura di La Torre. Tutto questo a poche settimane dall’ultima “Faraona“, la versione sicula della Leopolda, ormai diventata occasione perfetta per presentare le new entry del Pd in Sicilia.

Da un paio d’anni, infatti, il partito di Renzi continua ad arruolare generali e colonnelli che sull’isola fecero forti gli eserciti di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo: si va da Pippo Nicotra, rimosso da sindaco di Aci Catena perché aveva disubbidito al questore partecipando ai funerali di un parente di un boss mafioso, a Paolo Ruggirello, già assistente di Bartolo Pellegrino, potentissimo ex vicepresidente della Regione che definiva “infame” un personaggio che aveva parlato con i carabinieri, a loro volta etichettati come “sbirri”. Poi c’è Silvio Alessi, il presidente dell’Akragas calcio avvistato all’ultima edizione della Faraona, che quando voleva diventare sindaco di Agrigento faceva dichiarazioni simili: “La mafia? Non ne so parlare, non penso sia presente qui”. Sono questi i personaggi che vanno ad ingrossare ogni mese le fila dei democratici sull’isola: il risultato è un partito che ormai ha poco a che vedere con quello che in Sicilia aveva il volto di Pio La Torre. E forse le ultime dichiarazioni di Renzi sono servite proprio a questo: a rassicurare le new entry sulla bontà della scelta fatta.

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