L’Usigrai, il sindacato unitario dei giornalisti Rai, talmente unitario che Cgil, Cisl e Uil se lo sognano, ha annunciato un esposto all’Autorità nazionale anticorruzione contro l’attribuzione di rilevanti incarichi a colleghi provenienti dalla carta stampata. Nella sostanza ha apostrofato con un “siate i malvenuti” quelli pescati “fuori” che rubano il pane a quelli “dentro”. E così ora l’Alto Commissario Cantone, già temprato nella lotta contro Gomorra, sarebbe chiamato a formarsi un parere circa l’apparato giornalistico della Rai, e particolarmente attorno al punto se l’organico degli assunti sia titolare di “ius praecipuum” (diritto di prelazione) allorché si designino i dirigenti del medesimo.

Poiché l’Usigrai è condotta non da sciocchi, ma da scafatissimi esperti di relazioni con l’azienda e con quel che la circonda (istituzioni) e l’assedia (poteri vari), più che l’inizio di una procedura da cui attendere risultati, l’”esposto” sembra lo sventolio di una bandiera, la chiamata a raccolta dei circa 1700 giornalisti elencati nei ruolini Rai (non pochi, ma neanche troppi nel paragone con l’estero). E se escludiamo che il problema sia davvero costituito da qualche assunzione di titolatissimi esterni, qual è il pericolo che induce a tanta agitazione?

Il punto pare piuttosto chiaro: per l’azienda, perché abbia un solido futuro, è necessario liquidare quel che è legato al passato e solo al passato. Nella sostanza, si tratta di svellere, anche se nei modi garbati garantiti dall’ad (“niente esuberi”), l’eredità della lottizzazione radicata nella struttura dei servizi informativi nata a metà degli anni ’70, fra il tripudio di mille testate, edizioni, regioni, incarichi e gerarchi. Tutta roba che, non da oggi, risulta destituita di senso editoriale e di utilità pubblica. Sicché continuare a spenderci i soldi del canone, quello sì sarebbe degno di un esposto, se non al povero Cantone, almeno al giudizio del buon senso.

Insomma, è incontestabile che la nuova Rai possa essere costruita solo decostruendo quella di prima e non sovrapponendovene un’altra come una città nuova appoggiata sulle tranquille e indisturbate rovine di quella vecchia (a Roma ce ne intendiamo). E quindi, esuberi o non esuberi, lo stato delle cose si troverebbe comunque ad essere turbato, se non come è capitato agli operai dell’Ilva, comunque per i problemi di riconversione fra la organizzazione che serve all’azienda e quella in cui tante vite hanno definito ambizioni e competenze, soddisfazioni e frustrazioni, tempo del lavoro e tempo della famiglia.

Alla fine, questo ci sembra di dover dedurre, la soluzione non potrà che essere trovata grazie ad un progetto organico, che ridisegni in un tutt’uno la informazione nazionale, quella territoriale e, non da ultimo, quella rivolta all’estero. Qualcosa che disegni un futuro se non comodo, almeno significativo. L’organicità rischia di essere traumatica? Sì. Ma a occhio e croce, sembra l’unica alternativa rispetto ai timori di a una fine spaventosa o di uno spavento senza fine (generatore di esposti).

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