di Simone Vacatello, direttore editoriale di Crampi Sportivi

Cinque. Come i punti che la Juventus aveva collezionato dopo le prime cinque giornate. Se all’epoca però il cinque era una cifra numerica traducibile in un bottino indiscutibilmente magro, oggi è diventato il simbolo degli scudetti consecutivi che la squadra bianconera festeggia, cinque di fila per la seconda volta nella sua storia (era già accaduto dal 1931 al 1935), unica squadra in Italia ad aver raggiunto questo traguardo due volte.

Quello che nei primi due mesi del campionato in corso sembrava la fine di un ciclo, o che quantomeno alla fine di un ciclo aveva fatto pensare, era la difficoltà a macinare punti e a confermare quella postura da tritacarne che la squadra bianconera aveva dimostrato nelle stagioni precedenti. E invece, sei mesi dopo, siamo tutti qui a domandarci chi o cosa si possa opporre, da qui in avanti, a questo strapotere, a chiederci cosa manchi alle altre pretendenti non tanto per bissare un successo simile, quanto anche solo per interrompere questa striscia di vittorie.

Gli elementi da invidiare alla vincitrice del giorno sono tanti, si parte dalla solidità delle scelte tecniche, con un gruppo di giocatori che, con pochi cambi a ogni inizio di stagione, è riuscito a mantenere la propria identità di squadra, sopperendo all’avanzamento d’età dei senior e a partenze eccellenti. Tra i Del Piero, i Pirlo e i Tevez che andavano via e i Pogba, i Dybala e i Cuadrado che arrivavano, infatti, si è puntato sempre sul giusto mix di gregari affidabili e protagonisti in grado di decidere la partita. Si passa poi alle scelte dirigenziali, con soli due allenatori in cinque anni di panchine vittoriose, l’ultimo dei quali è stato anche l’ultimo a vincere uno scudetto con un’altra squadra (Allegri con il Milan nel 2011). In ultima analisi, c’è poi lo stadio di proprietà, che garantisce non solo una maggiore stabilità economica ma anche e soprattutto narrativa, ambientale.

Ed è proprio qui che la Juventus trae la sua arma in più, a nostro avviso.

Uno dei ricordi d’infanzia, o meglio preadolescenza, che mi colpì maggiormente in fatto di narrazione sportiva risale alla festa per lo scudetto juventino del 1998, festa alla quale non ho assistito certo a Torino, ma in un paese della Calabria di 9mila abitanti, quello in cui sono nato e cresciuto. Un carosello di automobili, bandiere, motorini e trombette a zonzo per l’invidiabile estensione comunale di quasi 11 km, nell’epoca pre-internet, e tutto questo a 1266 km di distanza dalla città in cui la Juventus aveva la sua sede sportiva. Nel corso degli anni ho conosciuto diversi amici pugliesi, sardi, abruzzesi e persino emiliani che possono dire di aver assistito a un fenomeno simile, ovvero a una delocalizzazione del trionfo sportivo. Non c’è troppo da stupirsi, per chi ha sempre considerato che l’assioma squadra più vincente=squadra più tifata possa bastare a spiegare il fenomeno in questione. Quello di cui ci siamo convinti invece è che, in un modo o nell’altro, questo aspetto all’apparenza extrasportivo sia diventato nel tempo un fattore sportivo a tutti gli effetti, e un’arma in più, al netto dei maggiori introiti e della squadra più forte sul campo. Specie se si considera l’evoluzione del calcio moderno che vede nei media non soltanto l’eco di ciò che avviene nell’arco dei 90 minuti ma, a tutti gli effetti, un valore interattivo nel fatto sportivo stesso, un elemento che talvolta si trova persino a influenzare il campo.

Una “piazza” sportiva che vanta più di 10 milioni di tifosi su tutto il territorio nazionale è, di fatto, una non-piazza, un ambiente in cui il disappunto fa meno rumore perché non viene riversato fisicamente tutto in una sola città. Questa delocalizzazione sembra attutire l’effetto boomerang di altri ambienti in cui un’eventuale contestazione da parte del pubblico diventa immediatamente qualcosa in grado di penetrare lo spogliatoio e, con i suoi effetti, di influenzare le scelte della società. E non dipende solo dalla solidità di una società, dato che si tratta di holding finanziarie che investono tanto ogni anno per puntare alla vittoria, per cui ci viene difficile pensare che ci sia da parte delle altre “meno” serietà o meno voglia di puntare alla vittoria finale. L’impermeabilità alle critiche e all’impulsività di media e ambiente è palpabile nel caso della Juve, specie se si considerano i risultati dei primi due mesi di questa stagione, e manca alle avversarie. Non è infatti un elemento di forza riscontrabile in piazze dall’identità fortemente territoriale come quelle di Roma o Napoli, ma anche in piazze altrettanto vincenti e altrettanto tifate sul suolo nazionale, come Inter e Milan che si ritrovano contrapposte anche solo per via della loro maggiore connessione con il capoluogo lombardo, a prescindere dal fatto che, tra di loro, probabilmente si sono contese meno trofei di quanto non abbiano fatto con la Juventus.  

A nostro avviso questo non dipende soltanto dalla minore consuetudine alla sconfitta della squadra bianconera, dalla tradizione, ma anche dal fatto che il sostegno non si limita alla città o allo stadio, ma trascende questo elemento, così come trascende il fattore territoriale riferito alla sola città di Torino. Questo si traduce inevitabilmente in un cuscinetto che allenta la pressione di una piazza, con le sue vie, i suoi bar, le sue radio e protegge la squadra, la tutela, la rassicura, anche in caso di una partenza stentata, difficile. La nostra è solo un’ipotesi, ma è possibile che oltre al gap tecnico da colmare, le altre società possano dover colmare anche questo, ancora percepito come extrasportivo. Nell’era di internet, tuttavia, gli strumenti per ovviare al problema e trasformare una società di calcio in un fenomeno culturale, oltre che sportivo e territoriale, sono a portata di mano. Tutto sta a ragionare sulla strada migliore da sfruttare.

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