Siamo arrivati al piano industriale della nuova Rai. E la linea di comunicazione verso l’esterno degli attuali vertici sembrerebbe quella di sottolineare ciò che unisce e sottacere quel che potrebbe dividere. Così dalla intervista di giovedì di Antonio Campo Dall’Orto a Il Sole 24 ore (si noti la scelta del terreno politicamente neutro) si evincono sì alcune linee “dette”, ma qualcosa si evince considerando anche il “non detto”.
Nel “detto” rientrano:

  • la definizione della programmazione propria del servizio pubblico come “complementare” a quella della tv commerciale. Il che supponiamo non significhi che a quest’ultima venga lasciato l’intrattenimento o qualsiasi altro genere di programma di largo ascolto, ma piuttosto che la Rai si ritiene impegnata a praticare ogni genere, ma con una specifica impronta originale, giacché l’originalità, in quanto comporta alti rischi, è esattamente quel che è strutturalmente assente dalla tv commerciale;
  • la indicazione dello sport come cavallo di troia per arrivare multimedialmente anche al pubblico che meno guarda la tv (a partire dai più giovani, ma non solo);
    la “alfabetizzazione digitale”, che speriamo sia perseguita attraverso la spinta dell’offerta multimediale anziché con qualche Maestro Manzi d’occasione;
  • la fotografia della Rai attuale come un deserto di competenze creative (qui l’espressione è nostra), tant’è che si chiede ai nuovi direttori di rete di provare a “ricreare la cultura dei capistruttura”, e cioè dello staff operativo più impegnato sulla creatività;
  • l’”efficientamento dei processi, ma senza esuberi”, che vuol dire, se ben capiamo, processi di riconversione di risorse tecniche e professionali da ciò che fanno a qualcosa di più utile. E qui la rassicurazione di massima (“senza esuberi”) non basterà di certo a placare l’ansia per il futuro di vastissime aree dell’azienda (pensiamo in particolare alla numerosità di Testate ed edizioni dei tg e a alla informazione regionale) che sanno di dover cambiare, ma aspettano di sapere come e verso dove;
  • la disponibilità a ridurre i ricavi pubblicitari, ma “solo in caso di un sensibile aumento di introiti del canone”. Il che non fa una piega e lascia al governo tutto il peso politico di decidere il da farsi su questo terreno che, a ben vedere, più che la Rai riguarda gli equilibri che potrebbero definirsi tra le tv commerciali generaliste (Mediaset, La7, TV8, TV9)

Nel “non detto” rientrano essenzialmente, e per fortuna, il “pluralismo” e il “pedagogismo”, le creature inventate negli anni ’70 da capi e capetti di partiti e gruppi di pressione per garantirsi le vie di accesso al video.
A tirare le somme, una direzione di movimento traspare, anche se prudentissima nella indicazione delle rotte e, specialmente, del modo di procedere. Così stanno le cose, in una azienda in cui oggi non c’è “pars construens” che non postuli sull’altra faccia della stessa medaglia una “pars destruens”. Dove in sostanza si è tenuti a camminare sulla uova. Ma speditamente, speriamo.

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