Lo chiamano il Supremo ma, dopo un lungo periodo di assenza dalle aule giudiziarie, in videoconferenza il boss Pasquale Condello si è presentato vestito da straccione con maglia e pantaloni strappati e un sacchetto della spazzatura in mano. La polizia penitenziaria lo ha subito bloccato dopo avere avvertito la Corte d’Appello, la Dda e il suo avvocato Francesco Calabrese.

Il Supremo è rientrato in aula solo dopo essersi cambiato. Ma il messaggio, intanto, è passato. Il linguaggio della ‘ndrangheta è qualcosa di indecifrabile. Lo comprende solo chi conosce l’organizzazione criminale dall’interno, l’unica prospettiva che consente di percepire anche quei movimenti di “pancia” delle cosche. Movimenti che, in una città come Reggio Calabria, fanno apparire le cose diverse da quelle che sono.

Il sospetto del pm Giuseppe Lombardo e della Procura generale è che il boss Pasquale Condello abbia voluto mandare un messaggio dal reparto “Alta sicurezza” del carcere di Parma dove è detenuto al 41 bis. E lo ha fatto nella prima udienza del processo d’appello nato dall’inchiesta “Meta” che, nel 2010, ha scardinato le cosche reggine e ha posto le basi per riuscire finalmente a comprendere non solo cosa sia la ‘ndrangheta ma anche chi tira le fila.

Se lo si vede così, il gesto di Pasquale Condello non può essere archiviato come una trovata bizzarra di un boss che, con sei ergastoli definitivi sulle spalle, può anche non preoccuparsi dei 20 anni di carcere che gli sono stati inflitti in primo grado nel processo “Meta”. E non regge neanche l’ipotesi che il mammasantissima di Reggio abbia problemi di salute. Dai controlli medici, infatti, la Dda è certa che Pasquale Condello stia bene. I referti del personale sanitario lo descrivono come un soggetto lucido e razionale. Non potrebbe essere altrimenti per un boss che, grazie anche alle sue entrature istituzionali, è riuscito per 20 anni a prendere in giro lo Stato pur restando sempre in riva allo Stretto.

In attesa di una relazione della polizia penitenziaria di Parma, si può dare una prima lettura al gesto di Pasquale Condello rileggendo le carte della sua cattura avvenuta a Pellaro nella periferia sud di Reggio la sera del 18 febbraio 2008.

Quella notte, il Supremo la trascorse nella scuola allievi dei carabinieri. Dopo le formalità di rito, prima di essere accompagnato nel carcere di Messina in elicottero, il boss dei boss si rivolse al procuratore Salvo Boemi, ai pm Giuseppe Lombardo e Domenico Galletta, al colonnello Valerio Giardina e al capitano Gerardo Lardieri. A loro affidò il suo anatema. “Adesso vedrete cosa succederà” è stata la frase di un boss consapevole di essere il custode di segreti inconfessabili tra pezzi infedeli dello Stato. Un boss che, per anni, è stato il punto di equilibrio tra la Reggio mafiosa e quella che si definisce antimafia, il mediatore di due mondi uno dei quali, almeno, potrebbe avere dato garanzie a Pasquale Condello circa i suoi interessi fuori dal carcere.

Pochi giorni dopo, al gip Filippo Leonardo che lo interrogò, il boss aveva detto: “Disconosco tutte le condanne che mi vengono attribuite. Si è fatto di me un grande contenitore in cui depositare i crimini che altri hanno commesso”. Un grande contenitore che, nella simbologia mafiosa, ieri in aula potrebbe essere stato rappresentato dal sacchetto della spazzatura che teneva in mano Pasquale Condello.

La sensazione è che il Supremo stia rivendicando il suo ruolo e stia “battendo cassa” avvertendo chi, dopo otto anni al 41 bis, pensa che il puparo sia diventato un pupo.

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