Ce la farà la presidente del Brasile Dilma Rousseff a concludere il suo mandato che scade il 31 dicembre del 2018? Riuscirà Lula, indagato dalla Mani Pulite verde-oro, ad insediarsi come ministro? Non è facile rispondere a queste due domande perché il futuro politico di Rousseff, cui è strettamente legato quello di Lula, si deciderà il 17 aprile, quando i 513 deputati della Camera verde-oro voteranno il suo impeachment, parola inglese che sta per cassazione di mandato.

L’accusa contro Dilma è conseguenza della decisione della Corte dei Conti brasiliana (TCU) che, lo scorso ottobre bocciò i conti dello Stato del 2014 firmati dalla stessa presidente per un ‘buco’ in bilancio da 106 miliardi di reais, circa 35 miliardi di euro al cambio dell’epoca. In Brasile hanno battezzato “pedalate fiscali” questo modus operandi di Dilma di ‘prendere a prestito’ miliardi dalle tre principali banche pubbliche – Banco do Brasil, Caixa Economica Federal e Bndes – senza prima fare approvare dal Parlamento ogni esborso, come invece prevede la Costituzione. Per la cronaca, solo una volta in passato il TCU aveva bocciato i conti dello Stato brasiliano: era il 1937 e Getulio Vargas di lì a poco avrebbe chiuso Parlamento, abrogato partiti e dichiarato l’Estado Novo che s’ispirava al fascismo.

Del resto che il gigante sudamericano stia vivendo un momento storico senza precedenti lo dimostrano almeno quattro dati oggettivi, non solo la bocciatura della Corte dei Conti di 6 mesi fa.
Il primo è la data in cui avverrà la votazione sull’impeachment. Il 17 aprile è una domenica e, per usare la frase preferita da Lula, “mai prima nella storia di questo paese” i deputati avevano sacrificato un giorno festivo per lavorare.

Il secondo è la polarizzazione tra i supporter e gli avversari dell’impeachment, con i primi che accusano Dilma di ogni malefatta – dalla crisi economica al finanziamento con tangenti delle sue campagne elettorali – ed i secondi che denunciano un “golpe costituzionale” nei confronti della delfina di Lula. Sia chiaro, il Brasile non è il Venezuela. Rispetto alla popolazione della patria del Socialismo del XXI secolo, in percentuale molta meno gente scende in piazza in Brasile, inoltre Lula e Rousseff non sono Hugo Chávez. Per rendersene conto è sufficiente guardare i bilanci di multinazionali e grandi banche (che hanno lucrato durante gli anni dei loro governi cifre astronomiche), ma non era mai successo prima che qui supporter di governo ed opposizione venissero alle mani come sta avvenendo con sempre maggiore frequenza.

Il terzo fatto oggettivo, quello che volendo rappresenta al meglio il Brasile di oggi, è però la compravendita dei voti dei 513 deputati che, come in “un mercato delle vacche”, sta avvenendo da un paio di settimane a Brasilia. Perché Rousseff sia costretta a lasciare il palazzo presidenziale sono infatti necessari i 2/3 dei voti alla Camera, ovvero 342 voti. Per salvarsi, invece, Dilma ne ha bisogno di 172. Al momento secondo il quotidiano Folha de Sao Paulo l’opposizione – che da una decina di giorni ha visto ingrossare le sue fila con l’abbandono del governo da parte del Pmdb, il partito più importante del Brasile, una sorta di Democrazia Cristiana che sta sempre al potere con chi vince – disporrebbe di 308 voti, il governo di 108 e gli indecisi sarebbero 97.

L’unica certezza è che il centinaio di deputati ‘indecisi’ da un paio di settimane sono oggetto di grasse offerte da parte del governo brasiliano, anche grazie ai ministeri ed agli oltre 600 incarichi lasciati vacanti dal Pmdb. Una settimana fa, oltre alla presidenza di enti pubblici e ad incarichi ministeriali e sottosegretariati con portafogli miliardarie, le “tariffe” offerte da Lula in una stanza affittata ad hoc nell’hotel Golden Tulip che si è trasformata nel vero centro del potere oggi a Brasilia, erano quantificate dal settimanale Istoé in un milione di reais, circa 250mila euro, per ogni voto contrario alla cassazione di Dilma.

Ad oggi le tariffe sono raddoppiate secondo alcuni deputati e sarebbero destinate ad aumentare ancora vertiginosamente, man mano che si avvicina al fatidico 17 aprile. Lula ha fatto spegnere le telecamere interne del Golden Tulip e, da giorni, nella hall dell’hotel si sussegue una “processione” di deputati ‘indecisi’. Alcuni hanno denunciato il “mercato delle vacche” e il quotidiano Estado de Sao Paulo ha calcolato il budget messo a disposizione da Rousseff per evitare l’impeachment in 38 miliardi di reais, circa 9 miliardi di euro.

Il sociologo Bolivar Lamounier, vicino all’opposizione, ieri ha protocollato una denuncia presso la Procura Generale della Repubblica presieduta da Rodrigo Janot perché “Lula sia arrestato”, visto che “la compravendita di voti sta avvenendo senza ritegno e alla luce del sole”. Da dire che neanche il Pmdb del vicepresidente Michel Temer sta fermo e, pur disponendo di meno “cassa”, sta promettendo agli “indecisi” incarichi futuri nel governo che nascerebbe se Dilma verrà cassata.

Staremo a vedere che succede ma il “mercato delle vacche” in cui si è trasformata Brasilia è innegabile come il ruolo centrale di Lula nelle negoziazioni perché, se cade Dilma, lui non potrà mai insediarsi come ministro e, senza foro privilegiato, il suo arresto potrebbe trasformarsi in realtà. Già, perché il quarto dato oggettivo che rende oggi il paese del samba “eccezionale” si chiama Lava Jato, la Mani Pulite verde-oro che rischia di arrestare gran parte del corrotto gotha politico brasiliano.

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