Cinema

The Idol, The Millionaire rinasce nella Palestina dilaniata per trionfare sul palco di Arab Idol

Con tutti i pregi di una produzione essenziale basata su uno stile compositivo privo di fronzoli formali la storia vera di Mohammed Assaf, raccoglie classicamente la lezione del miglior neorealismo anni cinquanta e la passionalità poetica dei migliori melodrammi alla Youssef Chahine per un film indimenticabile che lascerà tutti quanti attaccati al grande schermo a commuoversi ed esultare come fanciulli

di Davide Turrini

Per chi se lo fosse dimenticato, tutto preso da altri argomenti geopolitici impellenti, la Palestina e il dilaniato brandello della striscia di Gaza sono ancora lì, penzolanti e fieri come forse nessun popolo di questo pianeta è mai stato. The Idol, in uscita nelle sale italiane con Adler il 14 aprile 2016, è uno di quei film che sa mostrartene il segreto vivo e pulsante, nonostante la perpetua miseria economica e l’isolamento internazionale. Il regista Hany Abu-Assad, già vincitore sia al Certain Regard di Cannes con Omar nel 2013, che nel 2004 con Paradise now ai Golden Globes come miglior film straniero, ha poi avuto la brillante idea di filtrare un’identità e un senso di appartenenza culturale e politica nazionale attraverso la “normale eccezionalità” di un ragazzino che partecipa ad una delle più incredibili saghe del pop contemporaneo, i talent musicali.

In The Idol si seguono infatti le tracce del cantante arabo Mohammed Assaf, oggi affermata e celebre voce del panorama musicale mediorientale, ma che soltanto nel 2013 non era nessuno. Perché Mohammed nel giro di pochi mesi salta letteralmente dalle macerie della striscia di Gaza ai riflettori di Arab Idol, la versione araba dell’inglese Pop Idol di Simon Fuller. Cronaca vuole che il ragazzo, classe 1989, vinca la seconda edizione, quella del 2013. Solo che per farlo deve fuggire, scappare, scavalcare i confini di uno spazio geografico gabbia ipercontrollata dall’esterno che non ammette fuggiaschi. Il confronto con l’agio e la noia occidentale che accompagna il mondo dei talent, con quelle lunghe file di provinanti che vogliono diventare famosi, stride terribilmente con questa storia personale, delicata, intima, che ha il potere catartico della metafora per un’intera popolazione. Perché Mohammed Assaf insiste, cocciuto e talentuoso, nell’affermare il proprio sé, ma è cosciente di cosa significhi per uno ragazzetto che vive in un campo profughi finire all’Opera Hall de Il Cairo dopo aver gabbato esercito e doganieri come un “migrante” qualsiasi.

La vicenda non risale alla preistoria, ma all’altro ieri. Anche se il racconto di The Idol parte da lontano, negli anni ’90, da quando Mohammed e la sorellina Nour, nemmeno adolescenti, mettono su un complesso musicale assieme ad altri tre amichetti. L’ambizione si mescola al gioco del calcio, alla vicinanza e allo scontro con dei pericolosissimi criminali, fino all’innervarsi della presenza della religione islamica in un contesto sociale ancora piuttosto laico – la divisione del pubblico nei concertini tra uomini e donne, ma soprattutto la non troppo gradita presenza di una ragazza tra i suonatori. Poi la tragedia, e lo stacco temporale. Mohammed cresciuto che, per pagarsi l’università, si è messo a guidare un taxi, con quel sogno di cantare, e di farlo per la sua gente: tutti costretti a vivere in mezzo a case sventrate, acqua che va e viene, futuro che non si intravede nemmeno togliendo calcinacci e polvere del quotidiano. Fino a quando scatta la scintilla del tutto per tutto. Solo che superare un confine per chi sta a Gaza non è il viavai di Schengen, e invece di schiarire la voce il protagonista del film (davvero straordinario il giovane attore Tawfeek Barhom che lo interpreta) deve schivare le pattuglie della polizia.

L’apoteosi cinematografica arriva desiderata e gioiosa in un finale che mescola finzione e scampoli di filmati amatoriali e tv delle feste di piazza, con centinaia di migliaia di palestinesi raccolti di fronte all’evento davanti ai megaschermi. Il ragazzino che vince Arab Idol dopo mille peripezie, battendo i concorrenti egiziani, siriani e sauditi, è la vittoria politica di un intero paese, un gesto di rivalsa, un “ci siamo anche noi” nonostante tutto. “Mi sono sempre chiesto il motivo per cui volevo scrivere e dirigere il film e ho speso due anni della mia vita lavorando duramente per completarlo”, ha spiegato il regista Hany Abu-Assad. “Nel caso di The Idol, la risposta è chiara e semplice. La storia di Mohammed Assaf è una storia veramente incredibile, persino per uno come me, che tre settimane prima aveva vinto il premio Un Certain Regard al Festival di Cannes. Ero più galvanizzato per la vincita di Assaf che per il mio premio. Ero completamente assorto nella videocamera, nella piazza di Nazareth, insieme a altre migliaia di persone e simultaneamente attendavamo il verdetto finale di Arab Idol; nel momento della vittoria ho saltato, e ho esultato come un bambino, penso di non aver provato quella frenesia per un bel po’ di tempo”. Con tutti i pregi di una produzione essenziale basata su uno stile compositivo privo di fronzoli formali The Idol raccoglie classicamente la lezione del miglior neorealismo anni cinquanta e la passionalità poetica dei migliori melodrammi alla Youssef Chahine per un film indimenticabile che lascerà tutti quanti attaccati al grande schermo a commuoversi ed esultare come fanciulli.

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