Musica

The Last Shadow Puppets, la recensione del nuovo Everything You’ve Come To Expect (possiamo già dirlo: è uno dei migliori album del 2016)

Un disco che, lo diciamo subito, è di quelli che non solo si fanno ascoltare con piacere, ma rischiano di finire già da ora nelle classifiche delle migliori uscite dell'anno. Questo a discapito di una sorta di deja vu che, a orecchi disattenti, potrebbe suonare come qualcosa di poco originale. Il fatto è che Turner e Kane (più Turner che Kane) giocano a carte scoperte, dichiarando riferimenti e padri nobili, andando a comporre una tracklist che pretende, riuscendoci, a uscire dal 2016 per finire direttamente in area classici, pur rimanendo perfettamente attuale

di Michele Monina

La storia del rock è costellata di collaborazioni importanti. Incontri che portano alla nascita di canzoni che poi noi amiamo ascoltare, ballare, fingere di suonare andando in giro per casa ruotando le braccia e facendo il passo dell’oca. È il caso dei Last Shadow Puppets, un duo, una band, o come diavolo la volete chiamare, che mette insieme due nomi pesanti della scena inglese, e che, per quei miracoli che a volte succedono ma molto più spesso no, portano a un innalzamento esponenziale del loro potenziale, dando vita a una vera e propria bomba. I nomi sono Alex Turner, frontman degli Arctic Monkeys e Miles Kane un tempo leader dei The Rascals e prima ancora chitarrista dei Little Flames, coadiuvati per l’occasione da Zach Dawes dei Mini Manions al basso e dal produttore James Ford alla batteria. Il risultato è quello che tecnicamente si può definire un super gruppo indie rock, e si tolga dal termine indie tutta quella patina fastidiosa che ha qui da noi, in Italia.

Dopo essere nati alla metà degli anni Zero, con una collaborazione che portò alla pubblicazione del loro esordio The Age of Understatement, un gioiello di pop anni sessanta, a metà strada tra Serge Gainsbourg e Scott Walker, e dopo essersi persi di a più riprese persi e trovarti per quasi dieci anni, Alex e Miles si sono ritrovati in maniera più concreta sul volgere del 2015 con il nuovo album Everything You’ve Come to Expect, fresco di stampa. Un album che, lo diciamo subito, è di quelli che non solo si fanno ascoltare con piacere, ma rischiano di finire già da ora nelle classifiche delle migliori uscite dell’anno. Questo a discapito di una sorta di deja vu che, a orecchi disattenti, potrebbe suonare come qualcosa di poco originale.

Il fatto è che Turner e Kane (più Turner che Kane) giocano a carte scoperte, dichiarando riferimenti e padri nobili, andando a comporre una tracklist che pretende, riuscendoci, a uscire dal 2016 per finire direttamente in area classici, pur rimanendo perfettamente attuale. Turner è cresciuto con i Teenage Fanclub in testa, non è una sorpresa. Lo hanno fatto in tanti, in Inghilterra, del resto, e questo ha regalato alla band di Glasgow un’aura di mitologia poco riconosciuta qui da noi. Turner, dicevamo, è cresciuto con i Teenage Fanclub e, di conseguenza, con la musica che proviene dalla costa occidentale degli Stati Uniti, leggi alla voce California, leggi alla voce Beach Boys, leggi alla voce Brian Wilson.

Non basta, ovviamente, perché Turner e soci amano anche picchiare duro, quindi metteteci un pizzico, anche più di un pizzico, dei Television di Tom Verlaine, e visto che siamo nel 2016, di quell’altra imperdibile chicca che risponde al nome di Foals. E siccome un po’ di croonerismo, oggi come all’esordio, non lo si nega a nessuno, ecco ancora l’ombra scura e malinconica di uno Scott Walker, già celebrato dagli stessi Last Shadow Puppets come da David Bowie, in tutta la carriera e in particolare nell’ultimo Blackstar.

Ecco, con in mente questi nomi e con in più una freschezza e una sfrontatezza (specie nei testi, spesso piuttosto sboccati) tipicamente british, i brani di Everything You’ve Come to Expect si candidano a passare lungo tempo nelle nostre autoradio. Su tutte, ma solo perché fare qualche titolo usa, nelle recensioni, il brano cui è affidata l’apertura, Aviation, The Dream Synopsis e ancora Bad Habits, ma c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Chiaro, le aspettative aperte dall’esordio, datato 2008, sono state altissime e la lunga attesa poteva far sperare in qualcosa di più, ma stavolta Turner e Kane hanno deciso che il pop barocco degli anni Sessanta non sarebbe stato il solo leit motiv di questo lavoro, spostando anche alla decade successiva lo sguardo.

Nell’insieme un ottimo lavoro, di quelli che ci piacerebbe ascoltare un po’ più spesso e magari non dover attendere otto anni. Il prossimo passo è andarli a vedere dal vivo, in Italia il 5 luglio a Ferrara e il 6 luglio a Milano, o, se durante l’estate siete in giro per l’Europa, in uno dei tanti festival estivi, tipo Glastonbury.

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