La questione “indie sì” vs “indie no” non è poi così affascinante. Se n’è parlato, perché questo è quel che passa il convento, ma già solo il prendere troppo sul serio tutto questo stuolo di cantautorini con chitarrine e pianoline, tutti barbe e occhiali con la montatura spessa ci mette un po’ a disagio. Mettiamola così, in genere, nella guerra tra le nuove realtà indie e il mondo noi stiamo dalla parte del mondo, e della musica scritta e suonata senza sciatteria e autocompiacimento. Però prendiamo atto che ci sono artisti come I Cani che riempiono locali in giro per l’Italia, o che Dente viene considerato un cantautore esattamente come in passato avveniva, per dire, con un Fabrizio De Andrè. Per noi la faccenda potrebbe anche essere chiusa qui, con lo stesso senso di rassegnazione con cui, per dire, accettiamo che venga considerato un regista Mazzoli de Lo zoo di 105 o un romanziere Dario Franceschini. Sono cose che capitano, non possiamo che accettarle e cercare un modo per tirare avanti lo stesso.

Poi però incappiamo in un video di un artista che, per una serie di motivi geografici, antropologici e culturali, non conoscevamo, e di colpo la faccenda prende una piega diversa. Perché se in passato l’aver preso una posizione netta contro questa pseudoscena ci è costata attacchi come manco Cruciani coi vegani, stavolta sentire tutte quelle parole lì, una appresso all’altra, accompagnate da quei suoni lì, ci fa vedere la situazione sotto una luce diversa: se dovesse di nuovo scoppiare una bagarre non saremo soli e avremo anche un’ottima colonna sonora.

Enzo Savastano, scopriamo, è un cantante neomelodico. Un cantante neomelodico vero, di quelli che cantano le canzoni che noi critici musicali snob conosciamo solo per certe imitazioni televisive, imitazioni che, da snob, guardiamo anche con una certa sufficienza. Canzoni piuttosto tamarre, con video piuttosto tamarri, tutti gorgheggi, macchinone e camice sbottonate sul petto. Difficile, per chi non bazzica questo ambiente, capire se sia un artista neomelodico vero, o uno che fa dell’ironia, e anche capire se è uno di quelli bravi, di quelli che poi suonano ai matrimonio dei Boss e finiscono nelle notizie di cronaca. Di fatto, se vi fate un giro sul tubo, potete vederlo cantare canzoni che, per chi non è di Napoli e dintorni, suonano quantomeno bizzarre. Roba da finire in un film di Checco Zalone, e non è un bel dire. Poi però incappiamo nella canzone giusta, e tutto si illumina. Il tempo di ascoltarla e siamo tutti diventati fan di Enzo Savastano. Ma fan veri, di quelli che, se capiterà mai a Milano, faranno la coda per andarlo a sentire. La canzone della svolta si intitola Una canzone indie. A vedere il fermo immagine che propone Youtube già si può intuire di cosa tratta. C’è un tizio con la barba, gli occhiali da sole, un giubbino di pelle sopra un maglione, di notte, all’aperto. Insomma, Calcutta (che per altro è il solo che si salva di tutta la covata) nel video di Frosinone.

La canzone, in un napoletano facilmente comprensibile ai non napoletani, è la più perfetta presa per il culo del genere indie che si possa immaginare. Impeccabile e feroce al tempo stesso. A partire dall’incipit, geniale. C’è lui che fuma suonando la pianola in giro per le strade di notte e attacca a cantare “Chiedo scusa se ho trovato un nuovo accordo/e per errore ho scritto un pezzo indie”. Si parlava di sciatteria e musichina, no? Ecco, l’idea del nuovo accordo lo dice molto meglio. Poi è un vero crescendo di sfottò. Dal punto in cui dice che tocca mettere Bologna dentro il pezzo, Bologna, la città universitaria per antonomasia, o quello in cui dice che si deve travestire da coniglio o da marziano. Uno degli apici, al livello dell’incipit, è quando dice che il cantante indie deve suonare in un locale che è una stanza, ma è pieno di gente e la gente fa tendenza. Boom.

Cantarsela e suonarsela da soli, leggi alla voce indie. Savastano procede con questi tre accordini, suonati sulla pianolina. Il ritornello dice “vantarsi in pubblico dei premi appena vinti/ sostituire le pianole con i synthi/ levare tutti i cori finti/ Madonna quanti danni ha fatto l’indie” è da standing ovation. Poi Savastano procede scivolando sul personale, tipico del genere che pratica solitamente, e parla dei figli: “Mia figlia Immacolata ha detto: babbo, a diciottanni, me lo scrivi una canzone indie?” rimpiangendo un passato in cui cantava a squarciagola brani neomelodici, per poi proseguire, impietoso, parlando del figlio, ma soprattutto di se stesso. “Eppure come padre, giuro, ce l’ho messa tutta./ Ma aggi’ha sapè che figliemo va pazz’ pe’ Calcutta/ Tua madre me l’ha detto che ogni volta che sto fuori/ Ti chiudi dint’a stanzetta coi dischi di Brunori”.

Si va verso il finale, con ormai noi in lacrime, quando Savastano dice che ora per fare il tipo indipendente tocca “uscirsi la barba”, rinunciare al sassofono di tale Lello (supponiamo il suo sassofonista) per sposare arrangiamenti minimali, chitarra e pianoforte. Insomma, un capolavoro. Ma un capolavoro vero. Una canzone che, facendo sorridere, dice una verità incontrovertibile. Una sorta di manifesto di quanti vedono agli hipsters e agli anti-hipsters con la stessa simpatia con cui si guarda a una ragade anale. Enzo Savastano, noi non ti conosciamo ma te lo vogliamo dire, ci hai davvero svoltato la giornata, il mese, l’anno. Adesso prepariamo un pullman per venirti a sentire a Napoli, tu avvisa Lello di portare il sax, però.

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