Il numero più rappresentativo del “rientro dei cervelli” in salsa cinese è 400mila. Tanti sono i laureati all’estero che nel 2015 hanno deciso di ritornare nell’ex Impero celeste. Quella dell’immigrazione di ritorno verso la Repubblica popolare è una tendenza in crescita. Rispetto al 2014, dicono le statistiche ufficiali, c’è stato un incremento del 10 per cento. In totale ad oggi gli haigui — “tartarughe di mare”, così sono soprannominati in Cina i laureati all’estero rientrati in patria — sono 2,2 milioni. Merito, scrive l’autorevole settimanale economico Caixin, di piani specifici per l’attrazione di talenti dall’estero lanciati nell’ultimo decennio dal governo, come il “Mille talenti”, avviato nel 2008, e il “Diecimila Talenti” del 2012, pensati per attirare esperti e accademici da tutto il mondo.

Questi provvedimenti, fa notare Caixin, hanno invertito la tendenza alla “fuga dei cervelli” iniziata con le riforme di mercato tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 del secolo scorso. Merito anche, aggiunge il governo, di specifiche misure prese in campo economico, come lo sviluppo di centinaia di parchi industriali in tutto il paese in modo da attirare talenti, e capitali, locali e stranieri. Oggi sono 321 e ospitano oltre 24mila aziende. Per la Cina, infatti, è di cruciale importanza dotarsi di una classe di lavoratori specializzati, imprenditori ed esperti di ogni genere. E nei palazzi del potere di Pechino sembrano averlo capito: il “rientro dei cervelli” può portare nuova linfa vitale all’economia cinese, in cerca di una “nuova normalità” fissata al tasso di crescita del 6,5 per cento annuo. A maggio 2015, il presidente della Repubblica popolare Xi Jinping aveva sottolineato che i cinesi educati all’estero, insieme ai media e ad alcuni imprenditori del settore privato, sarebbero stati al centro dell’azione del Partito comunista di rafforzamento della “solidarietà sociale” nell’ex Impero celeste.

Il Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del Pcc, aveva ripreso le parole del leader e notato come gli studenti cinesi educati all’estero avessero “una prospettiva più ampia, che può portare nuovo vigore allo sviluppo economico cinese”. Non sono solo i settori chiave per l’economia del terzo millennio, come l’IT, a giovare del rientro dei cervelli. Anche settori “tradizionali” come l’amministrazione della cosa pubblica potrebbero trarne vantaggio. Alcuni quadri del partito, scriveva mesi fa il Global Times, spin-off in lingua inglese del Quotidiano del Popolo, vedrebbero di buon occhio un maggiore coinvolgimento politico di personalità formate all’estero, in prospettiva di un rinnovamento dall’interno delle istituzioni. Anche per questo nel 2016 lo stato intende aggiornare i suoi programmi di “rientro di cervelli” e fornire più assistenza a chi decide di tornare. Ma anche se sul piano ufficiale Pechino spinge per far rientrare gli haigui, le cose per loro, una volta tornati in patria, non sono sempre facili. In un’inchiesta del 2015 del China Daily, altro quotidiano in lingua inglese molto vicino all’establishment comunista, i giovani imprenditori cinesi formati all’estero trovavano difficoltà a realizzare il proprio business. È la lunghezza dei tempi burocratici delle amministrazioni locali spesso a fermarli. In contesti istituzionali, poi, l’ingresso di persone formate all’estero ai piani alti delle amministrazioni livello nazionale e locale è osteggiato dal pregiudizio: c’è chi li ritiene, scriveva ancora il Global Times, troppo “pro-occidente” o possibili “infiltrati” anticinesi.

di Marco Zappa

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