“Il mistero inizia a svelarsi”. Con queste parole la rivista londinese New Scientist presenta gli ultimi progressi compiuti dalla ricerca nella comprensione dell’esatto ruolo giocato nell’Alzheimer dall’accumulo di grovigli di fibrille proteiche, in particolare della proteina tau. Nelle persone colpite da questa diffusa forma di demenza – quasi 48 milioni, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), di cui 1 milione e 200mila in Italia – è dimostrata, infatti, la presenza di accumuli proteici, ma non è ancora noto come queste formazioni determino l’insorgenza della malattia, da sole o in relazione ad altre concause. Circa il 20% dei malati di Alzheimer non sviluppa, infatti, queste strutture.

Adesso, uno studio pubblicato su Neuron condotto sui topi da un team di ricercatori del Gladstone institute of neurological disease di San Francisco, dimostra che la proteina tau indebolisce le connessioni tra i neuroni, ostacolando così la comunicazione tra le cellule nervose e la formazione dei ricordi. Il ruolo delle proteine tau è noto ai biologi: stabilizzare i microtubuli, i binari sui quali viaggiano i materiali trasportati all’interno delle cellule. I ricercatori Usa hanno ora scoperto che questo processo nei malati di Alzheimer è alterato da una forma tossica della proteina tau, che si accumula nelle sinapsi, le regioni di connessione tra i neuroni.

“Siamo eccitati perché pensiamo di avere messo le mani su uno dei collegamenti tra proteina tau e memoria – sottolinea Li Gan, la studiosa alla guida del team Usa -. Ma siamo anche cauti, perché sappiamo che questo potrebbe non essere l’unico link esistente“. La rivista New Scientist sottolinea, inoltre, che occorre cautela, perché si tratta ancora di uno studio effettuato solo su modello animale e non sugli esseri umani.

In base alle stime degli esperti dell’Oms, nel 2050 il numero di persone colpite dall’Alzheimer potrebbe balzare a 138 milioni, con pesanti ricadute anche economiche sui sistemi sanitari. Il costo mondiale della patologia è, attualmente, di circa 6 miliardi di dollari l’anno. Una buona pratica per contrastare il progresso della malattia, insieme alla diagnosi precoce, è riuscire a mantenere il cervello in continuo allenamento. Non è solo un modo di dire, ma un progetto con solide basi scientifiche, finanziato con 4 milioni di euro dalla fondazione Pisa. Si chiama “Train the brain”, ed è condotto dall’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Pisa.

“Il cervello dell’anziano sano, e perfino quello nelle fasi iniziali della malattia, mantiene una sua plasticità, con una qualche capacità di recupero e riadattamento – spiega Lamberto Maffei, vicepresidente dell’Accademia nazionale dei Lincei e responsabile scientifico del progetto -. Questo rimodellamento favorevole può essere facilitato da un esercizio fisico regolare, rapporti sociali armonici, un’alimentazione mirata e tenendo la mente attiva. Gli stimoli esterni – conclude lo scienziato – rappresentano, infatti, strumenti indispensabili nel processo di rallentamento della demenza“.

L’Abstract dello studio

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