Partiamo da un dato di fatto incontrovertibile sul quale tutti i commentatori politici sono d’accordo: dal suo primo mandato, 1999, Putin ha sempre orientato la sua politica perché la Russia riprendesse il posto di grande potenza tra le altre e soprattutto modificasse l’immagine negativa che era veicolata in Occidente per i fatti dell’Ucraina. Su questo fronte gli accordi di Minsk del 2015 hanno permesso alla Russia di trovare una via d’uscita politica e, quindi di potersi svincolare in un qualche modo di un problema che per quanto importante non reggeva il paragone con quello siriano. Intanto la posizione ufficiale di Putin, a differenza di quella americana, è sempre stata di lotta al terrorismo a partire però da un appoggio al governo di Bashar al-Assad. L’impiego dell’aviazione russa ha avuto come obbiettivo quello di colpire l’esercito del califfo Al Baghdadi, anche se la propaganda anti-Assad non ha mai smesso di denunciare, con una certa ragione, che i raid aerei colpivano postazioni dell’esercito libero siriano, uno dei combattenti anti governativi impegnati in Siria.

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L’importanza del caso siriano comunque, la complessità degli attori sulla terreno militare, sulla scena politica e diplomatica rendevano la posta in gioco per Vladimir Putin, molto più importante del caso Ucraina e quindi la necessità di portare al termine con successo il suo impegno di guerra se voleva ridare alla Russia il ruolo di grande potenza. Da come si stanno svolgendo i fatti sul fronte militare, riconquista di Palmira, cessate il fuoco -sostanzialmente mantenuto-, ritirata strategica russa dal terreno delle operazioni militari, dopo essersi assicurata una presenza navale rinforzata a Tartus e una aerea a Latakia, tutto fa pensare ad un successo della politica estera di Putin. La stessa cosa non si può dire sulla politica economica che invece registra una stasi e una mancanza di iniziative. Inoltre, secondo quanto scrive il giornale Al Hayat, John Kerry avrebbe informato gli stati arabi che gli Stati Uniti e la Russia si sarebbero messi d’accordo sul futuro politico della Siria e sulla partenza in un paese terzo, di Bashar Al-Assad.

Chissà come rimarranno tutti gli estimatori del presidente siriano, se si sentiranno orfani il giorno in cui prenderà un aereo per andare via da Damasco. I suoi sostenitori si trovano ovunque ed è interessante chiedersi il perché di questa popolarità positiva. I discorsi che possiamo fare sono tanti e diversi. Soffermiamoci su uno di questi riprendendo alcune considerazioni apparse sul mensile di aprile 2016 di ‘Le monde diplomatique’. Si tratta di un articolo di Akram Belkaid dal titolo significativo: Perché il Maghreb sostiene Bashar Al-Assad. Partiamo da lontano. Le sei monarchie del Golfo avevano adottato un testo in cui si condannavano gli Hezbollah per i loro atti e per le loro pratiche terroriste rivolte a destabilizzare i paesi arabi. I governi della Tunisia, Algeria e Marocco in modo diverso hanno fatto proprio questa decisione che rispondeva alla logica dei Paesi del Golfo di isolare Bashar Al-Assad. Le opinioni pubbliche magrebine si sono ribellate attraverso i social network, chiedendo di non criminalizzare gli Hezbollah che rimangono ai loro occhi degli eroi dopo la guerra contro Israele del 2006. Inoltre molti giovani hanno espresso una forte contrarietà ad ubbidire ai voleri dei wahabiti e hanno preso posizione per un sostegno a Bashar mostrando che la frattura non passa dalla religione, sunniti contro sciiti, ma da un ragionamento politico che esclude un intervento magrebino negli affari siriani. Detto questo bisogna rilevare che il sostegno a Bashar non è unanime e che molti salafiti o simpatizzanti dei fratelli musulmani non esitano a condannare Assad, gli Hezbollah e i paesi che li sostengono.

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