Era il 15 gennaio del 2015 quando l’onorevole Gian Piero Scanu, capogruppo Pd in commissione Difesa della Camera, denunciò pubblicamente nel corso della seduta “le pressioni che da diverse parti sono state esercitate con intensità su diversi componenti la commissione in modo da poter orientare il parere della commissione”. In ballo c’era l’approvazione di un gigantesco finanziamento da parte del ministero dello Sviluppo Economico di Federica Guidi al programma di rinnovo della flotta da guerra fortemente voluto dal capo di stato maggiore della Marina, ammiraglio Giuseppe De Giorgi, con l’entusiastico appoggio della ministra della Difesa Roberta Pinotti, nella cui regione, la Liguria, stanno i cantieri interessati all’operazione.

Le pressioni sui parlamentari provenivano dai vertici della Marina militare e dallo stesso ministero della Guidi: un sodalizio che oggi, alla luce delle inchieste che li accomunano, assume nuovi significati – per quanto non vada dimenticato che il Mise è diventato da tempo il bancomat della Difesa, ai cui programmi di riarmo destina ogni anno i due terzi del suo intero bilancio e i tre quarti dei fondi per competitività e sviluppo delle imprese.

In commissione la denuncia di Scanu e la sua richiesta di rinvio del voto in attesa di ulteriori chiarimenti scatenarono dure reazioni, soprattutto da parte di alcuni suoi compagni di partito – in particolare quelli legati alla correte Pd dei ‘giovani turchi’ – che minacciarono perfino di sfiduciarlo come capogruppo. Al termine di una seduta che Scanu ricorda come “burrascosa”, lo scontro che proseguì fuori dall’aula, nei corridoi di Montecitorio, con urla e insulti tra il deputato sardo e il segretario della commissione, anche lui Pd, Salvatore Piccolo, che gridò a Scanu: “Qui siamo tutti onesti, non hai diritto di lanciare sospetti sugli altri!”.

In ballo c’erano non solo un bel mucchio di soldi – uno stanziamento ventennale da 5,4 miliardi di euro – ma il principio stesso di autonomia del Parlamento rispetto alla lobby militar-industriale e alle sue sponde governative. La questione contesa riguardava la destinazione di una grossa parte del finanziamento, circa 1,6 miliardi di euro, eccedente rispetto al reale costo – 3,8 miliardi – delle nuove navi da guerra chieste dalla Marina: una nuova portaerei, sei fregate, una gigantesca nave appoggio e due unità veloci da assalto. Inizialmente, quando il governo pensava di finanziare il programma ricorrendo a prestiti bancari come spesso avviene, quel miliardo e seicento milioni erano stati messi in conto per il pagamento degli interessi usurai (30 per cento!) abitualmente applicati in questo genere di operazioni dagli istituti di credito finanziatori (Intesa, Bbva e Cassa depositi e Prestiti i principali).

Poi, invece, al Mise i 3,8 miliardi per la navi di De Giorgi li hanno trovati quindi niente mutuo e niente interessi. A quel punto, Scanu e non solo hanno chiesto che la somma aggiuntiva di 1,6 miliardi, non più necessaria per il pagamento degli oneri finanziari inizialmente previsti, venisse restituita alle casse dello Stato per essere impiegate per finalità di altro tipo. De Giorgi invece voleva che quei soldi in più restassero alla Marina per ingrandire il programma navale e comprarsi almeno altre quattro fregate. Alla fine, dopo cinque giorni di scontri e trattative, il finanziamento è stato approvato, prevedendo la possibilità di destinare il miliardo e sei all’implementazione del programma navale previo nuovo parere favorevole delle commissioni competenti.

Un passaggio che De Giorgi sembra considerare una pura formalità, poiché in interventi pubblici e interviste continua a parlare di “dieci” fregate. Il feeling tra l’ammiraglio e il munifico ministero della Guidi – e il governo tutto – era tale da farlo sentire addirittura certo di poter ottenere presto dal governo un nuovo finanziamento da 4 o 5 miliardi per una seconda “legge navale” grazie alla quale comprare altre navi e sommergibili per la sua invincibile armata. Sapeva di navigare con il vento in poppa, ma ora il vento sta girando.

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